Ricordando l’Abruzzo

La nostalgia, l’attaccamento alla propria terra e l’emozione per il ritorno sono sentimenti ben presenti nel racconto – che di seguito riproponiamo – del pittore Carlo D’Aloisio da Vasto (Vasto 1892 – Roma 1971), pubblicato con lo stesso titolo sul mensile “L’Abruzzo“, nel mese di marzo del 1920. L’autore, descrivendo il suo viaggio in treno da Roma a Vasto, lamenta come l’Abruzzo non fosse ancora sufficientemente conosciuto e come il brigantaggio, a distanza di cinquant’anni dalla sua estinzione, continuasse ancora a danneggiare l’immagine regionale. Ma l’articolo costituisce, soprattutto, un’occasione per riflettere sul rapporto degli abruzzesi con la propria terra.

Antonio Bini, direttore della rivista “Abruzzo nel Mondo


Settembre-Ottobre 2023

Io sento il bisogno, innanzi tutto, di manifestare un forte sentimento: il mio amore per la provincia.  Si, la provincia, quella piccola, cara, silenziosa cosa, che abbandonai, come tanti abbandonarono, da molto tempo, e credetti di dimenticare, come tanti dimenticarono facilmente; come si dimentica una cosa qualunque. Io amo la provincia, perché la sua vita è semplice e umile; io amo la provincia, perché fu la mia culla di un giorno; io amo la provincia perché il suo popolo non vive soltanto di eleganze e di godimenti, ma di vita rigogliosa e sana; io amo infine la provincia, perché i suoi monti hanno un aspetto di bianchezza indicibile, perché a primavera la luna assume il colore del grano maturo, perché le canzoni popolari sono le più dolci e le più gentili.

La provincia sa custodire, religiosamente, le energie di tutta una razza primordiale, fatta di commozioni e di bellezze. L’uomo della provincia è possente nella sua rudezza, perché ha fede ed è vigoroso, perché è semplice.

Io provo tutto questo, ogni volta che a Roma prendo il treno per l’Abruzzo, quel treno a me tanto caro e che mi riconduce, a periodi, in seno alla mia terra, ai raggi del mio sole, davanti al mio mare, nel mio paese, nella mia famiglia, sulle mie colline, nella mia campagna.

Io consiglio di percorrere questa linea a tutti coloro che amano di vedere cose belle. Gli italiani che non viaggiano, non sanno e non si curano di sapere e non si vergognano d’essere ignari, e con leggerezza considerano questa vasta terra d’Abruzzo, che s’allarga e s’innalza dalle foci del Tronto a quelle del Trigno, come una successione di santuari bizzarri, popolati di santoni e di negromanti. Ma basterebbe volgere uno sguardo sul territorio del Fucino, sulla campagna sulmonese, verso la conca aquilana, sulle valli teramane, sui colli chietini, sui poggi del litorale, per comprendere, invece di quanta potenza fruttifera si adorni questa terra, di quanto commercio si allietino queste spiagge, di quanta ricchezza industriale quelle cittadine, dalla montagna al mare, dai fiumi alle selve. Un non so che di vergine, di casto, di sano, di puro, di primitivo e di profondo persiste ancora in quei luoghi e li distingue dalle altre terre d’Italia. Fino a pochi anni fa l’Abruzzo era una regione quasi sconosciuta e si credeva abitata da gente cattiva e da briganti.

Ma chi non vi è nato, chi non vi è vissuto, non può averne un’idea precisa, non può stimarne i valori veri e propri.

L’Abruzzo è la terra silenziosa che, tra il Tronto e il Trigno, l’Appenino e il mare, vive assorta nella sua umile vita quotidiana e nella superba fede delle sue tradizioni.

L’Abruzzo può vantarsi oggi di aver mandato per la nazione e fuori le opere dei suoi figli degni e grandi.

L’arte italiana è regionale e non nazionale, e l’Abruzzo ha in essa il suo degno posto. Così la bella e in apparenza rozza terra continua a preparare in piena austerità i figli di domani: una generazione che cresce sempre più buona, più forte, più bella.

Questo è l’Abruzzo vero e grande. Noto forse solo ai suoi figli che vi sono nati e vi sono stati allevati in quelle case dove si compiono i riti e si raccontano le strane, educative leggende dei boschi, dei monti, del mare.

Di tratto in tratto i treni passano e fanno sentire il loro fischio acuto, che si perde, col fumo della locomotiva, nella vallata o nel fragore del mare Adriatico. Qualche viaggiatore si affaccia al finestrino e vede il cafone che zappa la sua terra: non vede altro. Non vede o finge di non vedere le vergini bellezze dell’Abruzzo. Non si accorge che ogni pietra nasconde una sorgente, ogni silenzio genera un’idea.

L’antichità della vita non appesantisce gli uomini di questa terra; l’orgoglio delle civiltà passate non li fascia di silenzio o di tragiche monotonie. Vi è quel tanto di antichità che basta per comprendere come ogni tempio, ogni arco trionfale abbiano saputo anche lì imitare e perpetuare lo sforzo degli uomini curvati o dei popoli che si risollevano.

Nel cerchio dei monti o all’ombra dei secolari ulivi, la meditazione degli spiriti non ha carattere di rimpianti; è una riflessione che nutre un sogno di forza e di vita.

Ogni anno, quando torna l’aprile, io sento il bisogno di correre in Abruzzo, perché, laggiù, con l’aprile torna la giovinezza, torna la primavera con il vento lieve e i fiori di mandorlo e di pesco, bianchi e rosei, come una carezza che dà brivido di profumo nelle vene. I prati sono fioriti di lupinella, le colline s’aprono incontro al mare, macchiate, ai pendii dagli ulivi centenari.

Tante volte, negli aprili lontani della mia adolescenza, io ho salito i viottoli fioriti di biancospino, che dal mare turchino si arrampicano al paese. E ho traversato tutta quella campagna che si rivestiva dell’abito verdino. E tante volte io mi son goduto quel tiepido sole d’aprile, in mezzo al profumo di quelle piante selvatiche. Salendo per la collina, mi son tante volte voltato indietro a rimirare quel bel mare seminato di vele rosse, bianche, gialle.

Le nevi sulla montagna cedevano il passo all’aprile ed aprivano i sentieri alla primavera.

Tante volte, negli aprili lontani, io ho baciato la mia forte terra d’Abruzzo.

Abruzzesi, gente buona e grande della mia Terra facciamo l’Abruzzo sempre più forte, sempre più gentile!

Difendiamolo dal male dell’uniformità, come il cafone difende dai contagi le viti e gli ulivi.

Facciamo, noi abruzzesi, per il nostro Abruzzo, ciò che gli altri hanno fatto per le altre regioni d’Italia.

Nel nostro Abruzzo ride, sulla testa degli agricoltori, dei pastori, dei pescatori, ride – ripeto – un cielo splendido. Le nostre montagne, il nostro mare, le nostre rocce, le faggete, le vigne, gli ulivi, tutte queste bellezze naturali che danno all’Abruzzo il grande privilegio della singolarità, non dobbiamo dimenticarle.

Nelle nostre province ristabiliamo l’equilibrio della vita nostra cittadina che è nel nostro passato, quella vita che ristora gli stanchi.

Manteniamo sempre la forza del passato; non la lasciamo disperdere.

Non facciamo immiserire, affievolire, arrugginire i riti nostri, le usanze nostre, i ricordi nostalgici, le feste nostre. Il fuoco c’è ancora: non lo lasciamo spegnere.

E ricordiamoci sempre di difendere l’Abruzzo da cui abbiamo avuto fede e vita.

Carlo D’Aloisio da Vasto

Schizzo “Visioni d’Abruzzo” – Illustrazione tratta dalla rivista “Terra Vergine” – 1923


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