Pasquale Del Cimmuto – Catalogo Mostra “Paesaggi Segreti”, Teramo 2015

CARLO D’ALOISIO DA VASTO – L’immagine e il sentimento dei luoghi nel caro ricordo dell’Abruzzo

Un colloquio d’arte fatto di silenzio e di tempo

“ … spero che il pubblico la guardi questa mia esperienza pittorica, in silenzio ed a lungo, per comprenderla. Perché il colloquio d’arte è fatto di silenzio e di tempo.“

Con queste parole di Carlo D’Aloisio Dario Micacchi introduceva la sua nota critica alla Mostra antologica del pittore ospitata dalla città del Vasto nell’agosto del 1981 e significativamente intitolata Carlo D’Aloisio da Vasto: della sublimità del giorno e del lume e della cara apparenza delle cose, ove le parole semplici ma piene di significato e di sincera lacerazione emotiva del pittore, leggère e vaporose sembrano quasi impigliarsi sulle impudenti guglie concettuali e verbali della prosa forbita e turgida del critico.

In verità entrambe le enunciazioni, pur nella loro distinta matrice terminologica, pur nella diversissima condizione
analitica ed espressiva godono di specifica essenzialità e di una rispondenza ontologica proprie, integrandosi
reciprocamente ed integrando in sequenza un concetto che a noi piace altrimenti esprimere su Carlo D’Aloisio
per esaltarne alfine l’immagine e il sentimento nella cara reminiscenza dei luoghi, nella sospensione macerata e
nostalgica del tempo per una espressione connotata dall’aderenza e dalla sincera rispondenza ai moti dell’anima, in
un indefettibile rigore intellettuale: Carlo D’Aloisio rappresenta la coscienza pura nell’arte.

Con molta appropriatezza ed in chiara sintesi concettuale a tal riguardo Raffaele Berardini (nel catalogo della
rassegna del 2006 Pittori vastesi del ‘900. Il valore della memoria) annota su D’Aloisio: “…. la sua cultura, oserei dire la sua sensibilità etica gli fanno detestare ciò che tradisce l’autenticità, che affiora dagli accidenti quotidiani che intessono il tessuto delle nostre vite.”

Una dote di coerenza e di autenticità unanimemente riconosciuta dunque.
E un buon punto da cui cominciare la nostra bella storia.
E’ giusto introdurre subito due riferimenti concettuali che forse possono aiutarci nella definizione del mondo
ispirativo e dialettico del Pittore vastese.
I luoghi e il tempo, sono le fondamentali relazioni ispirative, due canoni declinativi essenziali nella pittura di Carlo
D’Aloisio.

I luoghi non si identificano semplicemente nella loro rappresentazione materiale sicché la denominazione
sinottica della Rassegna di “paesaggi” molto sottrae nella brevità esegetica, nella letteralità di conio verbale, ad una
definizione, più vera e attinente, ove il topos materiale, la scenografia fisica, di riferimento geografico e ambientale
serve quasi solo ad incrostare il vero sostrato ispirativo e lirico, quello legato al topos emozionale che è tutto
nell’anima, consustanziale alla mappa invero più rappresentativa e sensibile delle sensazioni, alla decantazione della
reminiscenza e alla sodale coesistenza dello struggimento melanconico e del desiderio.

Da qui la “segretezza” (che indichiamo nominalmente) la quale è essenzialmente quella del sentimento “pudìco” e
che solo incidentalmente si associa alla condizione di inedito delle opere esposte in Mostra: una doppia segretezza
quindi che ci piace sottolineare preliminarmente come concetto comprensivo.

A Pasquale Scarpitti che per la sua opera-testamento Discanto chiedeva una testimonianza sull’Abruzzo, D’aloisio
rispondeva con parole semplici, ma intinte nell’inchiostro cupo e amaro, quasi rimorso da una nostalgia penitente,
dal desiderio puro e legittimo dello struggimento, più volte represso e tuttora inappagato.

“La mia terra d’Abruzzo, se pur lontana da me da lustri, mi è rimasta teneramente e dolcemente nel cuore come
una “sposa” vergine, intoccata e intoccabile.
Recentemente ho voluto rivedere i luoghi della mia fanciullezza, della mia adolescenza, della mia giovinezza. E
vi sono andato per un colloquio intimo d‘amore, arrivando in piena notte di plenilunio. E -solo- vi sono rimasto
fino alla prim’alba. Cari posti miei in riva all’Adriatico: Casarsa, il Trave, Vignola, Punta Penna, Vasto. Poi ho preso
commiato con le lacrime agli occhi.
La solitudine! E’ il mio peccato originale? Non so. Ma sta di fatto che la solitudine mi ha sempre dato un dolce
senso di tranquillità e di serenità. E non è poco per la vita di un irrequieto sognatore. La solitudine mi occorre per
stare con me stesso. Ho avuto ed ho ancora in Abruzzo tanti cari e cordiali amici che mi sono rimasti affezionati,
che mi vogliono bene come io li amo. Ma la solitudine è il mio piccolo-grande regno. E i desideri e gli amori della
mia giovinezza non si sono spenti in me. Io ho amato al mia terra d’Abruzzo come un figlio ama la propria Madre.
E questi amori tenuti gelosamente nascosti e racchiusi nel cuore, vengono maggiormente goduti in solitudine, in
un godimento spirituale della natura e dei suoi colori. Ma c’è sempre vivo il desiderio di ripartire per rivedere e
salutare tutti gli altri lidi a me noti, tutti gli altri luoghi delle altre province visti e dipinti con amore, tutti i posti
delle quattro province risognati e ridesiderati. E dire a loro, a voce commossa, “Ciao”, forse ci vediamo per l’ultima
volta! Ma spero che il gran Dio vorrà consentirmi di portare con me, nell’aldilà, dentro i miei occhi chiusi, qualche
vostro pezzettino luminoso e prezioso. Così vivremo ancora insieme, per l’eternità”.

E’ di fatto questo un vero proprio manifesto artistico, una implicita professione di intenti, la dichiarazione
appassionata e sincera di una dolcissima poetica filiale: ove i luoghi della fisicità accolgono e compendiano,
esaltandone le significazioni seconde, i moti dell’anima; luoghi e segni che si provano a riordinare teneramente i
laccioli smembrati della memoria per poi discioglierli in un tenero canto (quasi una agra rimembranza leopardiana!),
in un deliquio di abbandono e di pace, nella solitudine appagante dell’ipsiloquio sommerso ma sereno, che è il tutto
dell’arte e può poi tracimare (incidentalmente!) sulla tela.

Carlo D’Aloisio aveva l’Abruzzo nel cuore, nel moto affettivo e nel gesto artistico. I suoi “paesaggi”, in tutto il
complesso della sua produzione, rappresentano in proiezione soprattutto l’immagine e il sentimento dei luoghi,
nella cara eco del ricordo, nella macerata rivisitazione visionaria e nostalgica.

E ancor di più egli aveva Vasto nel cuore! “E’ l’Abruzzo che trionfa in questi quadri. Ma si, è più che l’Abruzzo! E’
Vasto! Vasto nella torre di Santa Maria dieci volte ripetuta, con la chiesa, col prolungamento del monastero di Santa
Chiara; è la processione che rientra in San Pietro (oh, qui non si fa questione di San Pietro e di Santa Maria!); è il
mare, e i colli sovrastanti; è la campagna nostra; sono i nostri contadini camuffati nei vestiti moderni ma schietti e
veri con le loro angolosità e la loro semplicità scura di blocchi legnosi o rocciosi…”
Così scriveva un entusiasta Francesco Anelli a commento della importante Mostra personale di D’Aloisio ospitata
a Roma nel 1929 nelle Stanze del Libro nel Salone delle Tre Venezie.

E aperta e palese era al contempo la dichiarazione d’affetto del pittore verso la sua città, verso gli stessi suoi illustri
concittadini del passato. Lui “palizziano” o “rossettiano” di necessità e rispetto, lui umile autodidatta pronto a
reggere l’urto della storia come un robusto tronco nodoso delle sue pitture, capace di inseguire un sogno tutto
proprio, scrive in un articolo pubblicato nel 1916 sulla Rivista Emporium , “… La piccola città di Vasto (oggi
compresa nella zona di guerra) [ne] ha offerto recentemente un esempio che si può chiamare mirabile. Alta e
severa nella bellezza tetra del suo castello, delle sue torri, del suo Palazzo che rammenta la sontuosità guerriera dei
D’Avalos e dei Colonna, circondata da ogni parte dalla verdezza degli ulivi, dinanzi al bello azzurro dell’Adriatico
solcato di vele rosse e gialle, essa ha rievocato in un sol giorno ben sette figure di suoi figli più illustri e li ha
consacrati nel tempo e nelle memorie. I Palizzi e i Laccetti, i Rossetti d’onde uscì quel Dante Gabriele Rossetti,
soave e immortale creatore del Preraffaellismo. E Francesco Laccetti, il chirurgo insigne. Questo è il gruppo di
artisti onorato dalla città di Vasto nel cerchio antico delle sue mura, in un consentimento prodigioso di spiriti e di
popolo.”. Emergono già da qui la premonizione del debito artistico con la propria città e con il suo glorioso passato
e la gentile, quasi religiosa obbligazione ad una “saldatura” generazionale. Si consolidano intanto i convincimenti, si
organizzano gli scoramenti per l’uomo semplice e puro ma segnato dall’unzione, onusto di memorie e di candore
virginale; si prefigurando i sentieri di un cammino già indicato e di un obbligo da assumere come particola.

Andare dunque, portando con sé solo lacerti di vita di un mondo già lontano, già remoto nell’anima, per affrontare
un tempo nuovo, obbligatorio di proprie e indefettibili regole con la sola forza del sentimento, con la memoria e
il silenzio. E’ fatta. Carlo D’Aloisio si chiamerà nel mondo “D’Aloisio da Vasto”.

E poi il tempo.
La componente più sfuggevole (e tutta mentale) eppure la più immanente e coercitiva dell’esistenza umana è
colta dal Pittore nel cromatismo di una diafana aura proustiana; il tempo svaporato e confuso in atmosfere ialine,
macerato ed intriso dalla rimembranza, reso figurabile in impigliate e adunche benché gentili connessioni con
l’obbligatorietà materiale, universale ed ubiquitaria seppure metastatica, dei soggetti e degli ambienti, permeato al
punto che l’A. ne elabora una forma espressiva personalissima e tale che in lui ci sembra quasi di “… riconoscere
un assetato di cose sottese, delicatissime, introspettive.”

D’Aloisio artista “romano” di avanguardia

La vita e la fortuna artistica di Carlo D’Aloisio, partito dalla sua Vasto recando con sé tutto l’universo animato
d’Abruzzo (“… mondo contadino, pastorale e familiare -…”) si fanno a Roma, tra gli anni Venti e Trenta del
XX secolo, in un clima di vigoroso fermento culturale, popolato di personalità artistiche fortemente animate da
concrete istanze innovative; egli assolutamente “al centro” di stilemi e tematiche della nascente corrente pittorica
romana, partecipe ed artefice degli eventi.

Qui l’Artista si libera definitivamente di ogni scoria di “regionalismo e naturalismo”, scarta non senza fatica le
“mitografie dannunziane e quelle di una grandeur italica”; aggiorna al contempo il suo bagaglio tecnico ed esegetico
conservando però nei temi, tra tutti, il mondo contadino, seppure traslato da una dimensione di idillio ad un’altra
di dosata e svaporata metafora, e quello del quotidiano rivisti entrambi con disincanto e, dopo un’appropriazione
graduale, sotto “… una trasparenza assoluta in una luce meridiana e italiana diventata ordine e costruzione della
sensibilità, dei pensieri, delle forme pittoriche…” (D. Micacchi, 1981).

Egli perciò vive e interpreta con personalità e concreto protagonismo quegli anni.
Promuove una sua specifica revisione dei correnti canoni ottocenteschi, diffondendo il personale concetto di
“tonalismo” ed erigendosi come uno dei capisaldi del nuovo indirizzo artistico che andava connotando negli esordi
la cosiddetta “Scuola romana”, termine ancorché improprio stante “l’oggettiva impossibilità di riscontrarvi quel
carattere organico e sistematico proprio di una vera “scuola”.

Stringe un sodalizio artistico con Roberto Melli, “pittore costruttivo-tonale” all’avanguardia e con Trifoglio, che
con lui contribuiscono non poco alla ricerca formale del momento (salvo ad essere poi diversamente ignorati
dalla critica e dal mercato). Erano, i tre, schivi e incuranti del successo, “…. si chiudevano nella loro indipendenza,
preoccupati dal tormento di ogni artista, che è di approfondire la personalità, esplorarla, per dare la massima
concretezza di idee lungamente cercate..” mentre “… gli altri si preoccupavano del pubblico”.

E’ proprio Melli peraltro che già negli anni del “Purismo” scrive una delle pagine più significative della ricerca
tonale con la famosa Casa rossa (1923, Roma GNAM) ove propone “… una pittura di accordi e di contrasti, dove il
colore é protagonista.” (E. Badellino, 2002).

Scrive Giuseppe Pensabene a proposito di quel momento artistico. “Carlo D’Aloisio da Vasto e Trifoglio erano
due ricercatori autonomi, personali, ciascuno per proprio conto, nel campo della pittura tonale già fino dal 1930;
ricercavano, operavano, ma non teorizzavano né sistematizzavano la propria opera. Non cercavano seguaci,
né cercavano una sigla, come oggi generalmente si usa, allo scopo di fare gruppo e di sfondare. Si unì loro
spontaneamente, fino da quel tempo, Roberto Melli. Egli era stato fino a quel tempo scultore; si era reso noto per
alcune sue manifestazioni personali, in questa arte; amico di Broglio, aveva fatto con lui parte della rivista “Valori
plastici”. Era anche lui un lettore di Leopardi; si interessava ai cenacoli letterari intimisti di quel tempo; ma, più
che negli altri, era prevalente nella sua personalità la componente intellettuale, anzi, qualche volta cerebrale, che lo
portava alle generalizzazioni. Ciò non gli impediva però, di essere un temperamento caldo, umano, affettuosamente
espansivo: portava nelle lunghe discussioni con gli amici artisti un trasporto, una passione, che li trascinava.
Trifoglio, Carlo D’Aloisio da Vasto e Melli erano già operanti, in questo senso, nel 1930; già realizzavano il primo
nucleo della loro opera – indipendentemente l’uno dall’altro, sebbene nella stessa corrente del tonalismo.

Furono a Roma, i tre primissimi iniziatori di questa corrente.
Intanto, la loro opera era già conosciuta, specialmente tra gli artisti. I giovani si rivolsero, assai presto, a loro”.
Sono già leggibili, da qui, in maniera palese, seppure indirettamente, alcuni caratteri fondamentali della personalità
di D’Aloisio. Innanzitutto il suo essere schivo, tenace ricercatore dei valori assoluti e nobili dell’arte; alieno da mode
e da tentazioni mercantili; fiero della sua origine e incline alla discussione, al confronto; portatore di entusiasmi e
di passione vera; spirito libero votato all’essere e al credere più che all’apparire.

Ed è già riconosciuto come uno dei grandi ispiratori dei modi artistici del tempo.
E’ sempre Micacchi che aggiunge in tal senso: “… figura primaria negli anni venti con la sua pittura di una formaluce adamantina e mediterranea da alba del mondo, Carlo D’Aloisio da Vasto … fu anche sotto certi aspetti di
significato e di forme un anticipatore di quel chiarismo tonale del grande momento degli anni trenta di Cagli,
Cavalli, Janni, Capogrossi,, Ziveri, Francalancia e anche di Mafai …”
Alla II Quadriennale romana del ’35 i tre, Trifoglio, Melli e D’Aloisio, furono accolti e considerati per la loro
reale importanza. Le opere di Trifoglio furono acquistate per il Museo del Campidoglio e per altre gallerie tra cui
la Galleria di Valle Giulia. Medesimo apprezzamento ebbero le opere di Melli e D’Aloisio che furono anch’esse
acquisite da importanti Gallerie pubbliche.

E’ questo un periodo di felice evoluzione del dettato tecnico del Pittore. che si volge nella successiva evoluzione
formale “… ad una raffigurazione assai più modulata, cioè ad una forma d’arte dove la materia abbia la dovuta
elaborazione…” e “… per conquistare quella sodezza delle forme, quell’architettura del paesaggio, che con
l’impressionismo andava perduto …” egli fa “… più larga la sua pennellata…” immaginando “… il quadro come un
insieme di forme ciascuna delle quali abbia il proprio colore e il proprio tono.” (C. Carrà, 1932).
E’ lusinghiero e sincero nell’affetto un giudizio dello stesso Melli pubblicato su Il Vero Giotto del ’31: “… Fra
i “solitari” D’Aloisio Da Vasto va notato per il desiderio di superarsi che è in lui, che gli permette conquiste
sempre più evidenti nel senso di maggiore semplificazione e di maggior possesso della materia pittorica, cose che
lo allontanano … dal pericolo che per lui poteva rappresentare quella sua spontaneità nel creare il contatto fra il
suo istinto pittorico e la immediata natura.”

Si definisce così a chiare lettere la linea figurativa daloisiana nel senso di una espressione distillata fino al possibile
nell’alambicco della sperimentazione controllata ma incapace, per onestà dialettica ed etica, di rinunciare alla
“immediata natura”, punto di ancoraggio costante e fedele vincastro nell’eventuale (e possibile) smarrimento
occasionale della ricerca.

Il destino è comunque avaro e cinico con D’Aloisio. Seppure anticipatore di modi e tendenze tonali che avrebbero
avuto poi largo impulso nelle correnti artistiche romane del suo tempo egli si vedrà ignorato, come riferisce un
risentito Dario Micacchi, dagli organizzatori di importanti rassegne retrospettive non solo nazionali (quali quella
di Bologna La Metafisica – Gli anni venti del maggio-agosto 1980) e soprattutto quella parigina Les rèalismes entre
rèvolution et rèaction 1919-1939 ospitata al Centro Georges Pompidou nel 1981.

Anche un molto deluso Giuseppe Pensabene nel 1960 annota: “E’ triste ancora oggi, nel Catalogo della VIII
Quadriennale, in uno scritto dal titolo Sguardo alla giovane scuola romana dal 1930 al 1945 a firma di Giorgio
Castelfranco, vedere interamente taciuti i tre iniziatori autentici [Melli, Trifoglio e D’Aloisio – N.d.A.], per opera
dei quali il movimento ebbe un senso: perché lasciarono opere durature. Cadendo in una svista, perdonabile, se
mai, a un compilatore, ma non ad un critico, si scambia, in quell’articolo, lo slogan per l’opera, l’etichetta per il
contenuto. Si citano proprio quelli di quasi nessuno dei quali, per mancanza di una vera personalità, i quadri dipinti
in quel tempo resistono. Si tacciono invece quelli le cui opere, mano a mano che il tempo procede, sempre più
si affermano.” Da qui l’andare del tempo segna l’inizio, seppure sommesso, di una marginazione progressiva del
Pittore nell’attenzione della critica, soprattutto quella mercantile e salottiera che continuerà ininterrotta fino a
relegarlo in un cerchio del tutto periferico (a contendere quelli di cui “…i quadri nel tempo resistono…”), ingiusto,
ingrato e falso storicamente. Segue negli ultimi vent’anni di secolo XX l’oblio tombale.

Risulta perciò solo modesta e parziale l’iniziativa postuma della Rassegna D’Aloisio da Vasto. Trenta acquerelli dal 1920 al 1930 curata da Antonio Porcella e ospitata nella Galleria Ca’ d’Oro in Via Condotti a Roma nel 1974.

La sua Vasto comunque, seppure in iniziative connotate in genere da chiara enfasi localistica, non lo avrebbe mai
dimenticato. Particolarmente significative risultano per le testimonianze e la qualità rappresentativa la Retrospettiva
antologica personale D’Aloisio da Vasto. Centoventi opere dal 1920 al 1960 del 1981 curata dal già citato Dario Micacchi nonché più recentemente la presenza dell’Artista nella Rassegna collettiva Pittori vastesi del‘900. Il valore della memoria a cura di Raffaele Berardini nel 2006, entrambe organizzate dalle civiche amministrazioni del Vasto ed ospitate nei prestigiosi ambienti di Palazzo d’Avalos.

A livello nazionale ancora grande è comunque il debito della critica ufficiale nei confronti del Pittore. Al punto
da risultare solo un minimo, tardivo riconoscimento l’inclusione del suo nome nella recentissima mostra romana
Legami e corrispondenze. Immagini e parole attraverso il 900 romano (Roma, Galleria d’Arte Moderna di Roma Capitale; 28 febbraio- 29 settembre 2013). In essa D’Aloisio è inserito nella sezione Bontempelli e il Realismo magico (assieme a Carena, Sironi, De Chirico, Broglio, Casorati, Ceracchini, Di Cocco, Donghi, Francalancia, Melli, Savinio, Trifoglio, Trombadori, Capogrossi, Cavalli, De Pisis e Martini) con un suo dipinto di paesaggio urbano, Roma Mussoliniana, (acquerello su cartone, cm. 91×128) datato antecedentemente al 1929 e acquisito dalla GNAM di Roma nel 1939 alla III Quadriennale d’Arte Nazionale di Roma.

L’opera, seppur solo parzialmente indicativa nella vasta ed articolata offerta esegetico-espressiva della poetica
daloisiana, ha di suo una nettezza cromatica ed un rigore compositivo esemplari nel mentre codifica in maniera
documentaria non solo l’ordine materiale delle cose ma una vera “atmosfera” metafisica o, se volete, perfettamente
adesa alla invocata “rarefazione magica del quotidiano” di cui disquisiva proprio Massimo Bontempelli.

Il percorso artistico

A volere adottare un criterio ordinatamente cronologico (a cui tuttavia poter agganciare quello tematico-stilistico)
dobbiamo distinguere nella produzione artistica del Nostro almeno alcune grandi fasi seppure connotate da un
carattere di ciclicità stilistica solo parziale, ove invece ricorre significativamente l’oggetto (con una forte prevalenza
del paesaggismo) e solo modestamente essa si aggiorna per il per il dato formale: l’esordio, la maturità, la fase tarda.
Si vuole altresì significare come, a dispetto di una ripartizione così presuntuosamente semplicistica, la produzione
di D’Aloisio abbia dimostrato nel tempo una sostanziale integrità tematica e stilistica (assimilabile per molti versi
alla già citata “coerenza”), subendo solo sporadici e marginali sgretolamenti all’urto di mode e tendenze, al raffronto
sollecitativo e dialettico di frequentazioni artistiche diverse nel conservare come matrici intangibili e zenitali il dato
tonale e la sostanziale laconicità elaborativa delle forme; una assodata tendenza all’”unitarietà” dell’opera da alcuni
critici indicata come “…costruttiva e rispettosa dei principi dell’estetica”.
I primissimi esordi e la produzione giovanile sono facilmente irretiti dalla tradizione artistica vastese, segnatamente
quella “palizziana” (si consideri a tal riguardo l’onomatopeico olio su tavola Aprile del 1916). I temi legati al mondo
contadino e marinaro risentono, nella successiva evoluzione, più francamente dell’influenza della figurazione
regionale maturata ai modi pittorici di fine secolo, sulla scia, a noi sembra, più di un Tommaso Cascella che di altri
(significative in tal senso le opere Colloquio, un acquerello del 1921 e Pellegrini, olio del 1920).

La tavolozza è solo moderatamente accesa e ricca, i temi naturalmente quelli della ”epopea contadina e rurale”.
Opere come Festa di paese (olio su tela del 1920), Pescatori sull’Adriatico (olio su tavola del 1920) nonché gli acquerelli Contadina con colomba (1920) e Pescatori (1920) segnano marcatamente questa fase, che sembra configurarsi come fondamentalmente cognitiva più che evolutiva.

Seguono a breve distanza di tempo, ma sostanzialmente con gli stessi accenti tonali, Sosta a sera (olio su tavola del
1922) e Paesaggio (olio su tavola del 1923). La scala cromatica, segnatamente quella degli acquerelli, si stempera però
quasi subito in tonalità assai più consone (e predittive) per l’A seguendo una sorta di moderata dilavazione.. Ecco
dunque apparire, nel periodo successivo al 1922, opere come Sul lago (1923), Vele (1923), Vele sul fiume (1924).

La maturità (riferita agli anni dal 1930 al 1950) comprendente il cosiddetto “periodo umbro” (che va’ a sua volta
approssimativamente dal ‘40 al ’45) consolida il suggello cromatico tonale nel giusto dialogo con le forme che si
confermano di una plasticità essenziale e di un disegno omomorfo nel rapporto struttura-paesaggio (vedi l’olio su
tavola del ‘34 Paesaggio e l’acquerello del ’35 Le tre casette).

Si propongono, oltre alla necessaria ”urbanizzazione” dei paesaggi (Periferia del 1948), seppure marginali, altre
tematiche quali quella affettivo-familiare (La madre, 1930; Giovanni, 1933; Con Anna, 1934) e la natura morta (Natura
morta con coralli, 1933). Il “periodo umbro” (coincidente con un soggiorno quinquennale del Pittore in quella regione)
è connotato quasi esclusivamente dalla tematica paesaggistica con un approfondimento del rapporto volumetrico
degli oggetti (strade e case isolate) e la loro proposizione relazionale con la natura, rappresentata sempre in forma
“maieutica” con montagne dal profilo sinuoso e procidenze mammillari; il tutto con una scelta del colore che ora si
accende e sfavilla quel tanto ora si incupisce di desinenze terrose e pudiche. La materia pittorica è scabra ed opaca
ed il colore assume per suo conto una forte valenza disegnativa.

Una tappa importante e significativa è in questo periodo la Mostra milanese del 1932 presso la Casa egli Artisti
con una presentazione critica di Carlo Carrà. Questi vi apprezza letteralmente non solo “… la solita abilità di
mano e il solito virtuosismo … ma uno scavare fecondo, un amor schietto che rifugge dai facili effetti e dallo
sfarfallamento di cromatica piacevolezza”. Altrettanto significativa è la presenza dell’A. alla Bottega d‘arte di
Livorno (30 aprile-19 maggio 1933) con nota in catalogo di Michele Biancale il quale scrive: “… la maggior parte
di questi dipinti ci comunicano la pura emozione dell’artista. Campagne, acque, buoi al lavoro, visioni di paesi,
contadini, tutto s’include in un modulo di visione che da qualche tempo noi andiamo controllando come peculiare
al D’Aloisio, il quale per essere partito da una posizione nettamente regionalistica e per aver in seguito compreso
che il regionalismo si doveva abolire come rappresentazione di particolarismi dannosi alla sua vera arte, ma che
si doveva interpretare come puro motivo naturale speculato e sentito in modo semplice e piano, è nella migliore
condizione per procedere verso una completa conquista dei suoi mezzi espressivi”.

Dopo il ’50 D’Aloisio allenta la tensione emotiva sull’analisi e sulla ricerca ancorché residuale, recupera una
naturalezza pittorico-cromatica elementare nell’arricchire la sua tavolozza di un “… colore ansioso e patetico
che viene a sconvolgere la certezza di visione e la costruzione adamantina perseguita per lunghi anni (ma era il
momento del panico esistenziale dell’Informale e della gestualità informale e Carlo D’Aloisio deve aver sentito
vacillare la costruita armonia tra pittura e vita)…”; a preludere “… alle immagini rare degli anni sessanta dove tutto
quel fiammeggiare di colori di una vita in ansia si placa e vive in una nuova serenità di oggetti.” (D. Micacchi, 1981).
Sono da leggere in tal senso opere quali Natura (olio su cartone, 1955) e Casa del contadino (olio su cartone, 1955)
nonchè una interessante serie di nature morte.

Questo periodo, che possiamo definire tardo, a cui appartengono molte delle opere presentate nella nostra
Rassegna, è sicuramente poco studiato e analizzato criticamente ma ricco, a nostro modo di vedere, di contenuti
“riassuntivi e paratattici” di tutta la vasta opera daloisiana. Si assiste in questa fase, ad una operazione di “conferma
semiotica “ di tutto il vissuto artistico, una sorta di sinopsi esegetica confirmativa. Di fatto egli raggiunge in questa
seconda maturità, e segnatamente con la pittura ad olio, quella che A.M. Comanducci definisce “…la sua ultima
sintesi, definita arte selettiva, astratta e pur concreta” a detta e conferma di tutta la stampa critica contemporanea.

E’ comunque il colore a segnare costantemente la condizione evolutiva dell’Artista.
Scrive Chiara Strozzieri al riguardo: “I colori dunque sono il fulcro della sua ricerca e per questo, accompagnano
la sua crescita artistica, spaziando dalle tinte più neutre dei primi esercizi di stile, agli sgargianti e talora persino
fluorescenti toni del periodo della maturità. Comunque il colore è sempre il pretesto per approfondire uno stato
d’animo intenso e appassionato capace di coglier e le mille sfumature di un cielo terso, così come la varietà della
natura, che si presenta a grappoli di pennellate ora brevi, ora più pesate, ma tutte rigorosamente gestite da una
presente mente ordinatrice”.

La tematica dei “paesaggi”

“L’opera di D’Aloisio da Vasto nasce da una poetica naturalistica, il suo accostamento al mondo che lo circonda
denota un acuto spirito di osservazione; il paesaggio, in particolare, ebbe in lui un magnifico interprete. Esso
suscitò sempre nell’artista un senso di grande lirismo; la padronanza di una tecnica perfetta, non soffocò mai il
contenuto poetico. I suoi acquerelli sono quasi affreschi in proporzioni ridotte, ma con le stesse particolarità di
tono e di composizione. La levità delle trasparenze è insuperabile e la purezza del colore, la semplicità del costrutto,
raggiungono un livello squisitamente emotivo…”

Così scriveva Antonio Porcella nell’Introduzione al catalogo della già citata mostra postuma alla Galleria Ca’ d’Oro
di Roma, nel 1974, intitolata Carlo d’Aloisio da Vasto – Trenta acquerelli dal 1920 al 1930.

Il paesaggio si configura dunque nel pittore vastese come condizione di urgenza sinottica, l’occasione per la
riproposizione eccellente dell’endiadi che affronta e collima in una sorta di identità-sequenza, rappresentazione
dei luoghi ed esteriorizzazione dei sentimenti; in quella singolarissima, decussata esigenza (la quale forse esiste
solo nella nostra testa ed è nei fatti del tutto estranea alla composizione creativa?) che ci costringe e affatica a
considerare e distinguere metodicamente un contenuto e una forma; ignorando che forse le due entità, seppure
distinte nell’universo filosofico, sono in realtà un tutt’uno inscindibile, e lo sono almeno fin quando l’espressione
d’arte non sia “sfuggita” materialmente dal suo creatore.

Nella pittura di D’Aloisio assistiamo, in questo senso, quasi per incanto ad un reale sopimento della furia analitica
connaturata alla pura e sola ricerca, al declino della sommossa congerie interpretativa (che pure non significa
rinuncia alla tensione artistica); il pittore di fatto bandisce quella smania ipercritica che uccide nel cuore l’uomo e
l’artista tentando di esaltarne in cambio una vuota e apparentemente più nobile “cerebralità”.
Seppure egli “… era” come ammonisce il critico “un temperamento prevalentemente interiore, portato al dominio
dell’emozione da parte dell’intelletto”, l’intelletto stesso, non ne racchiudeva rigidamente e in maniera anecoide la
percezione del bello-naturale ma con maggiore costrutto la decantava filtrandola alla luce pura di un sentimento
malinconico e vibrante.

Il tema del paesaggio più di ogni altro (oltre quello della figura) è di fatto presente precocemente e in maniera
preponderante nel repertorio espressivo di D’Aloisio, che si tratti eminentemente di ambiente naturistico o anche
architettonico ovvero preveda la compresenza di figure. Queste per parte loro sono dapprima prevalenti nella
sintassi compositiva per farsi poi progressivamente più rarefatte, fino a scomparire del tutto nella produzione matura.

Quasi che l’A. abbia voluto sottolineare in forma cronologicamente progressiva la appagante perfezione della sola
natura (concedendo appena come dato minimale una sobria citazione della presenza umana, vista sempre più come
una sorta di orpello, quando con la natura stessa non avesse addirittura a contrastare); quasi a voler convintamente
confinare la presenza umana in una mera dimensione interpolativa e solo incidentalmente dialettica. Opere come
Piazza con carosello (olio del 1920) sintetizzano molto meglio delle parole questo concetto, esemplificando ed esaltando tra l’altro il grande rispetto che l’A. portava alla creazione artistica in quanto espressione quasi ermeneutica, la considerazione “virginale” della pittura-forma, resa al mondo in forma di pudica ed acritica memoria.

Scrive Walter Trillini: “…. i cieli dei suoi paesaggi e dei suoi mari, così levigati, distesi in una tonalità di fluorescenza
primitiva danno la precisa ed inequivocabile sensazione di trovarci di fronte ad un sottilissimo artista che usi la
sensualità come un leggero pennello che attraverso ombre e rilievi dia ad ognuno dei suoi panorami, un dettaglio,
o un ambiente, non distolto da nessuna interiore ed espressiva carezza cromatica”.

E’ appunto la “carezza cromatica” uno dei segni distintivi del lessico daloisiano: sapienti pennellate che “spolverano”
i contorni in un amalgama compositivo equilibrato e sensuale, una composta poetica tonale che sorregge l’insieme,
digradando e decantando. “Egli intende” per dirla con Michele Biancale (1933) “ aldisopra d’ogni tendenza
polemica, di porsi dinanzi al fatto naturale con animo sgombro di ogni altra preoccupazione che non sia quella di
sentire e di capire adeguatamente uno spettacolo naturale…”

Vivere l’arte come valore universale, nel più vasto segno del creativo che è gioia

Carlo D’Aloisio da Vasto ha vissuto la sua vita di artista con appagamento e con gioia: in un mondo in veloce
cambiamento, nel vocioso birignao artistico del suo tempo egli procedette “intoccato e intoccabile” con il passo
lento e sicuro dell’abruzzese pulito, uomo di montagna e di marina, forte e sincero, con amori e desideri mai
ostentati ma vissuti e chiusi gelosamente dentro di se’.

Egli ha percorso davvero con pari valore tutti gli “incamminamenti nei diversi rami dell’arte” ricercando esperienze
e conferme nelle più varie forme espressive. Fu dunque, solo nell’ambito della figurazione, pittore a olio e tempera,
acquerellista, pastellista, pittore di arazzi, incisore su legno e metallo, disegnatore e cartellonista
Oltre la solare centralità della pittura, nel suo personale universo creativo, una menzione particolarissima merita
fra tutte la sua esperienza di incisore, illustratore e decoratore; “… fin da giovanetto” infatti “ la rude poesia di
quest’Arte squisita aveva colpito la sua immaginazione e conquistato il suo vergine cuore…”

Le tematiche, gli accenti, i toni (il tutto accordato anch’esso al caro peso della rimembranza) risultano i medesimi
che nella pittura. “Orbene, sono ancora le vele adriatiche gonfie di vento, le mistiche processioni, i dolci idilli
paesani, i gruppi di casupole arrampicate su per le colline, i suoni delle zampogne che provocano le sue più dolci
visioni, da lui fermate con mano sul legno. Tutto rapito dalla sua ispirazione, egli, a volte, non ha curato neppure
certe finezze di linea, ma la poesia si sprigiona ancor più fortemente da quei segni rozzi impressi nelle tavole di pero
e di bosso…” (L. Servolini, 1928). E’ appunto come autonomo ma quasi obbligato completamento iconografico
che si relaziona dunque in questa Rassegna il ciclo delle incisioni dedicate all’Abruzzo nella cartella Dodici xilografie
della terra d’Abruzzo realizzata nel 1920. I titoli e i soggetti sono emblematici e marcano con nettezza il legame con
una terra straordinariamente ricca di tradizioni e di memorie; esse attengono i luoghi (Scanno), i mestieri (Il fattore,
Il pastore, Giovine contadino, L’arcolaio), particolari momenti di vita (Il battesimo, Confidenze, I promessi sposi, Il ritorno), i personaggi popolari (Contadina), la natura (Aratura, La vela).

Ulteriore e del pari importante opera è quella editoriale legata all’esperienza de L’Almanacco degli Artisti-Il vero Giotto, edito da D’Aloisio in quattro consecutive edizioni dal 1930 al 1933. Nata sulla scia del più famoso Almanacco
Bompiani la pubblicazione rappresentava, oltre che una iniziativa temeraria per il suo tempo, con quel desiderio
esplicito di ricercare una “linea” ed un giudizio critico condivisibile nel panorama artistico nazionale, anche una
chiara professione di intenti, nel tentativo intrinseco, sincero (forse ingenuo?) di porre, a se’ e agli altri, degli
interrogativi plausibili, di richiedere con forza una necessitata prova di adesione agli ideali, un sinceramento delle
vocazioni, oltre all’obbligato confronto e una verifica dei linguaggi.

Scriveva di questa esperienza editoriale il critico Maurizio Fagiolo dell’Arco nel 1981: “Chi affronta questo lavoro [lo
studio su gruppo di artisti, n.d.r.] deve ricostruire quel clima anche attraverso le riviste e i periodici, e qui presento
il caso di un Almanacco poco noto (più noto è quello Bompiani) ma che da anni consulto con sempre notevoli
sorprese. Lo pubblicò Carlo D’Aloisio da Vasto (da parte sua, delicato pittore e acquerellista) a cavallo del 1930,
con il contributo di tutti gli artisti e intellettuali del momento. In linea generale va notato come sia presente ogni
momento e movimento dell’arte, senza limiti nazionali e internazionali (di fascismo c’è appena un odore attraverso
il ritratto del duce scolpito da Wildt). Escono cronache sulle regioni (i redattori si chiamano Casorati o Bartolini,
Franchi o Costantini) ma anche su Montparnasse e sulla Spagna o sull’America. I tre referendum (sull’arte attuale, su
“che cosa è l’arte moderna”, sugli artisti preferiti) permettono di saggiare, anno per anno, il polso di un paese civile.”

Una vera prova di coraggio dunque, una generosa offerta di riflessione per “… la disperazione silenziosa di tutta una
generazione di artisti che non riusciva a comprendere in quale direzione orientare la propria fede nell’arte”.

Ci sarebbe da scrivere ancora del D’Aloisio “istituzionale” (Direttore del Palazzo delle Esposizioni e della Galleria
Comunale d’Arte moderna di Roma nonché ivi responsabile dei restauri e della sistemazione delle opere museali,
documentative ed artistiche) e della sua attività di scrittore e di critico per definire a tutto tondo una personalità
totalmente immersa e pulsante nel magna artistico e ideologico del suo tempo.

Ma quale é stato dunque il rapporto di D’Aloisio col mondo dell’arte inteso e vissuto come un universo di interdipendenze mediali ed espressive, quale la sua direttrice di vita artistica mediata a monte da una irreprensibile
e personalissima scelta esistenziale? Se pure è vero che egli, come scrive Raffaele Berardini “… forte di questa
capacità di rifugiarsi nelle piccole cose, da cui deriva la suggestione di una pittura nobile e meditata, si rifiuta, sin
dal principio, di assoggettarsi alle Avanguardie, che in Italia sembrano spente dopo la ventata futurista….” fermo
e teso rimase comunque un rapporto di reciprocità critica con le espressioni pittoriche, anche quelle emergenti,
del suo tempo. Quel voler chiamare a raccolta e meditazione in una operazione quale quella dell’ Almanacco degli
Artisti tutte le voci e le espressioni presenti nel panorama artistico nazionale, quel volere a tutti i costi confermare
i principi “etici e formativi” dell’arte, il cercare con ostinazione ed onestà intellettuale sempre le condizioni di
uniformità e di affinità piuttosto che declamare “ex cathedra” i canoni rigorosi ed esclusivi/escludenti di una o
talaltra regola di scuola o di tendenza; tutte queste condizioni ne fanno oltre che un animo gentile, un vero studioso
e ricercatore il cui ideale nasce da una naturale radice espressiva e ne fortifica parallelamente la ricerca.

Egli dunque non fu, e non poteva altrimenti essere, un “provocatore” nell’arte ma piuttosto un sommesso
osservatore, un codificatore umile, uno spirito paterno, francescano nel grande e caotico universo che spesso è solo
dell’io gridato, dell’assoluto presunto e del nulla.

Il giudizio del tempo, la consolatrice dolce rimembranza

“Uomo di grandi battaglie spirituali, il D’Aloisio porta nella pittura l’ardore delle sue passioni ed i suoi particolari
convincimenti”, così lo definiva Carlo Carrà nel 1932. L’ardore, la passione, il convincimento sono universalmente
le qualità di uno spirito libero e puro. Tale fu di fatto Carlo D’Aloisio negli avvicendati suoi momenti di vita e nelle
espressioni ulteriori dell’arte. Ebbe come artista e come uomo a riferimento solare la nuda coerenza affrontata
costantemente al rifiuto, altrettanto sommesso ma convinto, di ogni forma di esteriorismo e a quel bisogno sincero
e mai deflesso di interpretare l’arte in costante, progressivo seppur graduale e assodato rinnovamento (“Egli sa che
il movimento artistico contemporaneo è una forza che non può fermarsi…” scriveva di lui ancora Carlo Carrà).

Dalla sua parte c’erano una tecnica finissima, acquisita e perfezionata in ogni espressione (l’olio, l’acquerello,
il disegno, l’incisione); il solido e rassicurante ancoraggio al figurativo (sempre pronto comunque a piegarne il
segno e il colore al moto innovativo ancorché passeggero, ancorché avvertito temerario), la sua compenetrazione
radicellare con la terra di origine, sposa e madre.
”Carlo d’Aloisio da Vasto ha nell’anima la poesia della sua dolce terra d’Abruzzo, così festosa e tutta piena di colori
e tutta incanti. Cosicché nelle sue opere – siano pitture, pastelli, tempere, arazzi, incisioni sul legno e sul metallo,
disegni e cartelloni – si agitano sempre i fantasmi della terra natia; e quelle marine adriatiche, quelle processioni, quei
volti bronzati, quei cieli solcati da nuvole bianche svelano il suo sentimento nostalgico, sembrano fioriti non dalla
sua mano, ma drittamente dal suo spirito inebriato…” Così ne scriveva Luigi Servolini (All’insegna del libro. Quad.
10, 1928). C’è forse da chiedersi cosa di lui, della sua opera, sia più pregevole e originale e quanto dell’una parte,
la cifra stilistica e intellettuale, sia, nel giudizio aridamente storico-critico, prevalente sull’altra, quella intimistica e
sentimentale. C’è forse da chiedersi qual’è l’artista che più ci avvince e ci commuove: se il giovane ed entusiasta
pittore “romano” innovatore dimenticato del suo tempo (con Trifoglio e Roberto Melli) o l’eterno sognatore” ,
del tutto slegato da mode e tendenze, sempre incline al canto e prono nella rimembranza.

E’ indubbiamente una eresia procedere, in una analisi che voglia essere un minimo coerente, con tale barbaro
divisamento che ha del manicheismo. L’artista, ogni artista, è invero un tutt’uno, una particola indivisa che
include e decanta con naturalità gli eidola della mente con la destrezza riflessa del gesto in un equilibrio di forma e
contenuto il cui perfetto sorreggersi segna la cifra del definitivo valore artistico.

Ma D’Aloisio non si è preoccupato mai eccessivamente, ne siamo certi, di curare partitamente la forma in quanto
tale, come valore essenziale ed assoluto. Egli sosteneva il peso della percezione e del sentimento affidandolo ad
una distillazione segnica e soprattutto tonale di una naturalità piana e leggibile, vaporosa, gratificante nella sua
esplicitazione, rassicurante nel suo lessico.

“Nella sua arte non c’è malinconia, né rimpianti, né sottigliezze intellettualistiche; egli accetta la vita e trova diletto
nella sua pittura dove si sente un’anima vibrante dinanzi alle mille sensazioni che la natura offre “ scrive A. Porcella.
Un “…”solitario” animato costantemente dal “desiderio di superarsi..” fino alla “… semplificazione e al maggior
possesso della materia pittorica, cose che lo allontanano … dal pericolo rappresentato da quella sua spontaneità nel
creare il contatto fra il suo istinto pittorico e la immediata natura.”. Così lo definiva Roberto Melli su L’Almanacco degli Artisti del ’31. Solitario e solo lo è stato davvero, ma di una solitudine coraggiosa perché onesta e coerente, sempre più lontana dalle mediazioni, sempre più attratta nell’orbita di una pacata e ricerca senza affanni e senza secondi fini, nel segno semplice o “semplificato”(se più vi piace) dell’interrogativo fino al dubbio e della coerenza estrema.

L’immagine e il sentimento dei luoghi con l’Abruzzo nel cuore

Volendo identificare, in conclusione, a chiare lettere una linea connotativa precisa e all’occorrenza sinottica per
la pittura di Carlo D’Aloisio da Vasto non si può prescindere dalla sua capacità di adottare dalla luce-forma la
nemesi dello struggimento. Nel tentativo di offrire un giudizio-impressione che leghi con un minimo di unitarietà
la produzione “storica” a quella offerta in mostra (che potremmo definire quasi una parentesi “intimista”) si deve
inoltre fare riferimento costante, evidente ed imprescindibile a quella sua caratteristica solare di interprete sopra
tutto sincero e coerente, semplificato nell’analisi e leggibile senza imbarazzi o ubriacature concettualistiche nella
traduzione rappresentativa, di inattesa concretezza, di vivezza vissuta nella sua apparente elementarità.

Egli ha sviluppato, nella sua lunga vita d’artista, una solida narrazione nel segno del realismo e della “tradizione
semplificata”, con totale onestà, senza sentirsi obbligato a calligrafismi eccessivi o assillato da tanto modernismo
concettuale, dall’ansia di cambiar pelle di continuo. L’unico suo obbligo verso l’osservatore fu quello di rendere
possibile ogni tipo di confronto, come per una gentile compiacenza tesa a non disagiare “l’altro” (sia esso un analogo
creatore di immagini o di queste solo un fruitore), più per una sorta di necessaria frequentazione occasionale
e limitata da condividere, che per reale necessità esegetica della sua alle altre, contestuali forme espressive e
comunicative del tempo (in gran parte, come detto, “dichiaratamente” innovative).

Proprio da questa semplicità, quasi una disarmante ovvietà, da questo impulso sintattico scaturisce tra l’altro la
stessa inclusione del Nostro nella corrente “tonale” o “tonalistica” di cui si è detto. D’Aloisio di fatto ha sempre
testardamente privilegiato nella sua paziente opera, animata al contempo di impulsi e di ricerca, un atteggiamento
disincantato, fanciullesco ma consapevole costantemente e coerentemente di un obbligo espressivo alfabetico
(quasi etico), seppure posto a coabitare e soggiacere in qualche modo alla permeazione sillogistica indottagli, quasi
passivamente, dal magma espressivo e mediatico del suo tempo.

Si vuole altresì contestualizzare e dare risalto in tal senso, nella congerie “alluvionale” delle mode e dei modi artisticoespressivi dell’epoca, oltre il dato ispirativo e la timbrica dei rimandi iconici, ad una affermazione di individualità, una vera condizione di fede nella tradizione, nella forza del sangue (ampiamente segnata nel nome, da quel “da Vasto” che rimandava a lettere forti l’interlocutore ad una origine di luoghi e di genia, ad una regionalità, una
discendenza artistica di valore assoluto, da condividere con l’interlocutore preliminarmente e indefettibilmente).

La storia umana dell’Artista è marcata incontestabilmente dal segno del predeterminismo. Essa si anima, sulla scia
emotiva della forte vicenda artistica regionale, di una propria energia propulsiva ineluttabile: il distacco giovanile,
come i suoi illustri concittadini ottocenteschi, dalla sua terra (che era ed è oggi – e tale è giusto resti – nell’immaginario
l’intero Abruzzo) per seguire quella insopprimibile vocazione in una sorta di reiterazione palingenetica, nella tenace
e pur sempre sofferta condizione di autodidatta, con la candida irrinunciabilità alla ricerca del vero “… con sensibilità
pittorica rara e coscienza culturale ancor più rara…”, pur nel necessario e mai tormentato distacco formale dalla
matrice ispirativa più facile e disponibile (obbligandosi però ad una sua rilettura attenta ed aggiornata), quella
della vuota rappresentazione prosaica o addirittura di una arcadia rinnovata. Tutte condizioni che nei princìpi
avvicinano D’Aloisio, come anticipato, alla nobile sua ascendenza artistica vastese, quella della tetrade palizziana,
quella dei Laccetti e dei Rossetti, affrancandolo tuttavia dal rischio di una mera, seppur rispettosa dipendenza
psicologica nella misura in cui egli seppe conferire alla sua pittura il gesto aggiuntivo, liberato dalla monodia del
ripetitivismo, sgravato per sempre dal rischio della banalità. Vogliamo qui intendere, in termini più generici, al
fatto che egli fu pittore, pur nell’epoca degli “ismi”, fondamentalmente affascinato (come tanti altri del resto!) dai
temi universali della rappresentazione artistica riconoscendo nella figurazione la grande madre, la radice primigenia
della concretezza espressiva e del pregio, il vero marchio del bello, oltre che lo strumento primario dell’emozione.

E a questa seppe legare costantemente il segno di un personalissimo connotato dialettico, quasi una professione
di modestia e umiltà, evidente ed imperturbabile, sereno come dello stare timidamente ai margini della scena (una
presenza in un cartouche immaginario), nella condizione dell’aedo.

Se è vero che egli rappresentò il paesaggio, le scene di genere segnatamente della campagna e della marina (con ciò
aderendo sommessamente pur senza pronazioni, alla silloge universale della grande tradizione pittorica regionale),
il catalogo umano del ritratto e della figura nelle sue varie espressioni, gli oggetti e le nature morte, egli lo fece
rispondendo in primis ad un’esigenza maieutica e ad una offerta virginale, con gli occhi limpidi e puri del fanciullo.

Lo fece nella mera urgenza raffigurativa, della semplice eppur ognora sorprendente sola duplicazione del reale (il
“vero” nella sua più pura espressione, come “obiettivo” dichiarato e completo della ricerca artistica), condizione
essa prima e primaria, da che mondo è mondo, del tentativo “magico” di riduzione segnica del creato e dell’umano;
subentrando solo poi la necessità, contestuale e formale di aggiornare quel catalogo ispirativo a fronte di un
mondo (lontano dall’Abruzzo, lontano dalla “sua” Vasto) e di un tempo più ampio e articolato che nella storia
andava addensando nebbie, nell’arte inesorabilmente scontornava la definizione oggettuale, frantumando la figura
e definendo altrimenti la sua fragile forma espressiva. Ebbene, in tutto ciò l’essenzialità di D’Aloisio risiedette
paradossalmente in un pensiero, né debole, né caduco, ma imperturbabile e assoluto, perché scisso dalla contestualità
dialettica temporo-spaziale, perché costantemente, fortemente sorretto dalla semplice e “cara apparenza delle
cose”. D’Aloisio non fu pittore “di genere”, né fu letteralmente un’avanguardia (seppure di avanguardia assoluta fu
la sua ricerca “tonale”); piuttosto fu pittore confermativo, “di conversione intimista e di memoria”, ove intimità e
memoria seppero conservare per tutto il tempo una loro presenza come irremovibile sovrastratificazione pervasiva,
una sorta di palindromo concettuale di sentimenti ad esse affini: la serenità, il conforto, l’appagamento dello spirito,
il congiungimento all’idealità e alla pienezza ricettiva dei sensi.

E la sua terra, l’Abruzzo, fu sempre “teneramente e dolcemente” una grande madre ispirativa e appagante, in una
espressione talora esplicita (come nel già citato carteggio di Discanto ove il Maestro prende commiato da essa “con
voce commossa”); il più delle volte nella dimensione della nostalgia sottesa, dopo averla “risognata” come “sposa,
vergine, intoccata e intoccabile” e “ridesiderata” nel segno di quegli “amori tenuti gelosamente nascosti, racchiusi
nel cuore e goduti in una solitudine, in un godimento spirituale della natura e dei suoi colori”.

Il “ridesiderio” è dunque la nota valente del viaggio pittorico di D’Aloisio da quella Vasto e da tutto l’Abruzzo
verso l’infinito dell’arte; sentimento complementato dal sogno, anch’esso continuamente rinnovato, che suggella
a marchio di fuoco l’eternamento metempsichico della percezione e della successiva sua de-modulazione artistica.
“L’Abruzzo gli sorride sempre nell’anima” ha scritto di lui Salvatore Sibilia “i suoi fantasmi gli ridon sereni e ogni
anno ritorna fra i suoi monti a ritemprare il corpo e lo spirito e a prendere nuova ispirazione alle bellezze lontane
e meravigliose della sua regione”.

La sublimazione, che è condizione di valore assoluto, è capace di ascendere poi i canoni del reale nella sua condizione
spazio-temporale, sicché il pittore si troverà in seguito a rappresentare esemplarmente un “paesaggio umbro”,
ammesso per ciò al rango di “nuova terra natia”, con pari valore nella nobiltà dei sogni, con la stessa vibrazione e
l’incanto di un’appartenenza eternata in un rinnovato vincolo di sangue; con il sentimento cosmico liberato, che fa
di ogni luogo, di ogni terra, ad un animo gentile, la propria terra, di ogni uomo un reale, significativo frammento
dell’intera umanità di cui Carlo D’Aloisio da Vasto ha sempre avvertito la pulsatile contiguità, la vividezza rinata (ma
sempre alimentata in segreto), in quel colloquio d’arte che lui voleva fosse sempre fatto “di silenzio e di tempo”.

Uno sguardo alla Mostra

La Rassegna che presentiamo assomma e propone alcuni motivi di rinnovato e per certi versi inaspettato interesse
sull’arte di D’Alosio, in una sorta di revisitazione palindroma del suo percorso artistico, per non dire piuttosto di
un “approdo” semplificato ma sicuro, in quanto sincero e coerente dacché libero (soprattutto nelle opere tarde) da
condizionamenti di critica e di mercato.

Si tratta certamente di un nucleo cospicuo di opere, per la grandissima parte inedite e di piccolo formato (soprattutto
olii su supporti rigidi -legno o cartone-, le più numerate e intitolate nel retro, prodotte in un ampio periodo a
partire dagli anni Venti ma con prevalenza a cavallo degli anni Cinquanta) le cui “… ambientazioni subiscono gli
spostamenti reali dell’A. dalla terra d’Abruzzo a Roma e poi, per un breve periodo dal 1940 al ’45 in Umbria…”

Esse, aldilà dell’aggiungere ulteriori motivi di analisti contenutistica e formale si segnalano per costituire una traccia
sommersa, una sorta di taccuino segreto dell’A., una parentesi di espressione liberata di cui talora si apprezza
il carattere della ”impressione”, la estroversa applicazione cromatica, il rinnovato (e comunque mai dismesso)
interesse per i “luoghi”, come complemento emotivo del vivere, straniati e persi in una appagante situazione sopranaturale, quasi una condizione proustiana del vivere/osservare vivendo.

Il tutto nella condizione difficile, per un artista rigoroso quale D’Aloisio, di dover fare i conti con la figurazione,
l’arduo ma irrinunciabile ancoraggio al segno e al tratto intesi in termini dolorosamente tradizionali ancorché
aggiornati, personalizzati. Le dimensioni ridotte (segnatamente quelle delle opere minuscole, le cosiddette “schegge”)
costituiscono una ulteriore (tardiva o meglio matura) aggiunta metonimica, una affermazione finale, sommessa ma
convinta di sottomissione del trambusto espressivo alla successiva e obbligata incasellatura temporale, storica: l’arte
che si affida ad un linguaggio recuperato dall’ancestro, minimale ma essenziale, che fa del colore una espressione
ancillare, eruttiva e guizzante, del sentimento. Non importa di chi, non importa come o rappresentando cosa, non
importa in che forma e dimensione o in che tempo. E’ il recupero senile, fatale ad ogni artista, della scaturigine
primaria che già fu dell’urgenza “rupestre” che combina l’esigenza originale ed irreprensibile di una anamorfica ma
tranquilla regressione formale all’elemento ossimoro del segno, con il recupero naturale delle motivazioni e delle
costrizioni sciamaniche, alla ricerca (come il primitivo di Altamira) di un altro se (bufalo o gazzella) da affrontare a
un non-se specchiale e rassicurante.

Sono anche presenti in Mostra, sebbene in numero limitato, alcune opere conosciute di D’Aloisio, di dimensioni
cospicue, pubblicate e proposte anche in precedenti rassegne sull’A.: tali gli acquerelli Lungo il Pescara del 1929 e
Spiaggia del 1930 (presentati alla Retrospettiva D’Aloisio da Vasto. Centoventi opere dal 1920 al 1960 tenutasi a Vasto nel 1981). Queste però assumono nel lungo percorso espositivo/esplicativo della riproposizione daloisiana piuttosto
un punto ufficiale e condiviso di una acquisita postazione estetico-formale nel relazionarsi poi perfettamente con il
grande valore concettuale della mostra dei “nuovi” paesaggi: il rapporto tenero e conchiuso dell’Artista con il vero
tema dei sentimenti, con la spazialità dominata e asservita al ricordo.

Premesso già in precedenza cosa vuole significare il titolo di questa Rassegna, segnatamente per quanto attiene
al “segreto”, esso riferito sia alla duplicazione dell’esito pittorico nella sua accezione fisico/romantica, sia più
prosaicamente al carattere inedito delle composizioni presentate, è opportuno nondimeno soffermarsi in dettaglio
su alcune opere di più spiccato o rinnovato interesse; ricercando e richiamando “a memoria” temi, motivi e
affinità con il corpus più conosciuto della produzione dell’A., quello iconografato e celebrato in Rassegne di
grande importanza oltreché ripetutamente riprodotto e diffuso e per ciò più noto al pubblico. Un dato che a noi
sembra significativo da sottolineare è quello dell’implicito e prevalente significato intimista, quasi testamentale della
presente raccolta che, pur riproponendo i temi consueti negli accenti cromo-tonali suoi personalissimi assomma
un ideale ed essenziale, seppur occasionale e parafrasato, regesto della sua produzione matura. Di quel periodo che
avendo già bandito quasi del tutto la figura nella sua accezione recitativa classica conferiva la intera condizione
empatica del quadro alla sola natura rappresentata e dell’uomo non indicava se non scabre architetture, lacerti di
epos già chiamato folclorico (non c’è che un solo e surreale pastore; non ci sono che soli due smarriti contadini;
il resto è il silenzio del destino claustrale che attende tutti, che l’A. sente e rappresenta con piena responsabilità,
con efficacia inarrivabile). E’ questo indubbiamente un altro segno della coerenza di D’Aloisio, dell’ispirativo, mai
rinunciato ragguaglio con l’aspetto etico delle “questioni” nella vita soprattutto e nell’arte in subordine.

Passiamo dunque ad una analisi singola delle opere più significative esposte. La bella tavola denominata Paese,
olio del 1922, rappresenta già una interpretazione “evoluta” del paesaggio da parte del Pittore, con una lettura
volumetrica e sostanziale degli spazi e delle architetture ed una segmentazione cromatica del contorno che prelude
ad interessanti rimeditazioni successive. In essa davvero si realizza preliminarmente, per citare ancora Carrà., quel
“…bisogno di un ordine architettonico delle masse e l’osservazione realistica, “ che “spesso si congiungono in un
significato, che può ben dirsi inconsueto e non restringibile ai canoni del mero naturalismo”. Di pari interesse è la
tavola Paesaggio con strade e case (anch’essa riferibile agli anni ’20) che presenta affinità compositive sorprendenti, fra le opere di D’Aloisio, con il più famoso olio Piazza con carosello del 1922. L’atmosfera è algida, decisamente metafisica tale da richiamare alcune pagine di Donghi (quello di Via del Lavatore, del 1924 ad esempio o la più tarda Veduta di Roma del 1940). A circa la metà degli anni ’20 è del pari ascrivibile la straordinaria Venezia, olio su tavola che rimanda, nella rappresentazione di uno dei soggetti fra i più celebrati in pittura, ad esperienze paesaggistiche tipiche ad esempio di un primo Tamburi (cfr. Piazza del popolo, olio su tela, 1940 ca, GNAM di Roma) caratterizzate da una figurazione essenzialissima. scarsamente definita, compresa tra ampie e indistinte campiture cromatiche.

Molto deve a questa traccia pittorica, per l’essenzialità liberata delle forme, la successiva esperienza artistica sullo stesso tema, nel segno della medesima , efficace esiguità narrativa, di pittori altri quali ad esempio i “romani” Virgilio
Guidi (Roma 1891, Venezia 1984) e Remo Brindisi (Roma 1918 – Lido di Spina 1986).

Significativo e ben rappresentato è il periodo cosiddetto della maturità che va dal finire degli anni ’30 ai ’40 in cui
l’Artista sembra felicemente sviluppare una sua decisa e peculiare identità pittorica, con una insistita e più convinta
imprimitura cromatica, tanto da nascerne una visione unifica e definita. Ecco dunque offrirsi significativamente
opere quali Paesaggio 215, La strada, Paesaggio 159, Marina 22. Qui l’A. raggiunge un equilibrio tono-cromatico
ammirevole con un uso della materia pittorica deciso e fluente fissando in maniera quasi definitiva la gran parte dei
riferimenti stilistici personali.

Il cosiddetto “periodo umbro” è variamente presente nella nostra Mostra, con opere, tutte molto indicative. Alcune
di esse richiamano alla mente le scelte volumetriche e cromatiche del Francesco Trombadori di Cremagliera. Paesaggio d’Abruzzo seppure quest’ultima risulti animata da un tentativo dialettico/oggettuale più facondo ma che non per questo debba dirsi il dipinto complessivamente più riuscito.

Talora esse sembrano riecheggiare la composta e rassicurante composizione del Rosai paesaggista degli anni ’30
(cfr. O. Rosai, Paesaggio toscano, 1935, tecnica mista su tela, Firenze, stazione ferroviaria, sala ristoro).
Tutte sono caratterizzate dall’estrema magrezza dell’imprimitura, dall’effetto “smerigliato” dell’insieme, dallo
svagarsi contenuto del colore ove propongono un prevalere di toni terrosi o di un verde cupo e riflessivo. Tutte
offrono un rappresentazione suadente, ombelicata e placida, di dune boscose ondulanti come fianchi e seni materni.

Fra le opere di tal periodo presentate nella nostra Rassegna si segnalano come esemplari
Umbria, Paesaggio umbro 707, Paesaggio umbro con casa.

La piccola ma graziosa tavoletta di Piazza Navona (databile all’incirca alla fine degli anni ’40), di lessico elementare,
dal sapore dichiaratamente intimista, promuove precocemente un D’Aloisio ormai libero da ogni costrizione
alfabetica o rigore relazionale. E’ lo stesso effetto che crea la essenziale Via Crescenzio di Bartoli Natinguerra (ante
1927). Una sintesi stilistico-tematica esemplare fino al grado di connotarsi come una sorta di “lascito lessicale” è
contenuta nella tetrade di dipinti databili dopo gli anni ‘50, tutti ad olio su tavola (Alberi e case, Campagna romana,
Luce lunare, Tetti rossi) caratterizzati da una sorta di omogeneità stilistica quasi anastatica. In essi l’approdo narrativo
è reso in forma per così dire estenuata, gli spazi cromatici affiancati fin quasi alla compenetrazione, le prospettive
sofferte e quasi annullate in una lettura tutta “in primo piano” con le stimmate evidenti di una modernità assoluta,
in una dimensione narrativa del tutto rarefatta.

Nelle prove che appartengono decisamente alla forma espressiva tipica dei pieni anni ’50 (Paesaggio 522, Paesaggio con paese, Bosco 26, Colori della natura, Casette bianche) l’A. chiude definitivamente i conti col residuo figurativo affidando essenzialmente al colore, distribuito generosamente in minuscole tessere e campiture giustapposte, il ruolo di definire l’enunciato pittorico. Il colore, vivo e gioioso, recupera una sua funzione dialettica prevalente, definisce la
sillabazione compositiva, caricandosi di una forza espressiva importante, costantemente composta in una lettura
orizzontale a piani sovrapposti tanto da richiamare alla mente precedenti remoti ed apparentemente impensabili
tale il Carro Rosso di Edoardo Borrani (1867, Milano, Coll. Priv.) segnatamente per le ampie distese orizzontali
sovrapposte di colore uniforme. Un fascino tutto particolare hanno infine le numerose e minuscole “schegge”,
tavolette di piccolo formato, tessere leggere di un mosaico intimo e claustrale, eseguite verosimilmente negli anni
50-60, in un periodo di appagata ma felice sintesi espressiva, l’A. implicitamente dichiarandosi ormai fuori dagli
obblighi del commuovere e attrarre; con la sola esigenza di regalare a se’ serenitudini, ad altri una gratuita manciata
di polvere di sogno. Fra tutte si segnalano le piccole (cm. 13 x 18) Casa sul mare, Sull’Adriatico; e le piccolissime
(cm. 9 x 12) Colline umbre, Paesaggio 18, Sera. In alcune di queste ultime prove l’A. si abbandona alla gioia del puro
dipingere attingendo, in maniera personalissima, finanche i canoni dell’informale e dell’astratto ma senza rinunciare
ad interporre quel soffio lieve e spontaneo di naturalismo, nel colore e nelle movenze simboliche, che hanno
tratteggiato da sempre la sua lineare espressione pittorica. Si fanno in tal senso notare le piccole, preziose prove
indicate come Paesaggio 683 e Siepi fiorite.

A proposito delle opere ad acquerello E’ interessante considerare preliminarmente quanto riportato nella nota nel
catalogo della importante Rassegna postuma del 1974 alla Galleria Ca’ d’Oro di Roma Carlo D’Aloisio da Vasto. Trenta
acquerelli dal 1920 al 1930, dal curatore della Mostra Antonio Porcella che a proposito di D’Aloisio acquerellista
scrive: “…nelle sue visioni spesso nutrite di ricordi e di impressioni, mantenne sempre una vena di libera poesia, di
palpiti, di sensazioni personalissime, il cui linguaggio poetico fu strettamente collegato al mistero luminoso”. Ecco
dunque che tornano, anche in questo caso, il ricordo e il canto, ecco riproporsi, mai scomparso, il grande tema
della luce. C’è da dire che tutte le esigenze ispirative (superata la stucchevole – ma sempre contenuta- melofonia
folklorica regionale che non riesce comunque ad inficiare opere quali Pastori del ’21, ma che peraltro è, ad essere
onesti, del tutto assente nelle prove riconosciute più felici degli esordi, quali Colloquio del ’21 e la stessa Contadina
con colomba del ’20) e mnemoniche si contemperano nella grande ricerca luministica e tonale che, a nostro avviso,
prevale come condizione di apporto e ricerca espressiva assoluta su ogni altro riferimento tecnico, contenutistico
e formale.

Torna dunque il tema dello studio della luce come elemento fondante della ricerca pittorica in ogni tempo: da
Caravaggio a Filippo Palizzi (la luce e il “vero”) passando in successione attraverso le istanze della Scuola di Resina
per approdare alle esperienze dei macchiaioli e agli impressionisti. Il tema appare qui aggiornato nella chiave di
una analisi ed una espressione del tutto personali; il chiarismo spesso presente non è solo una tendenza ma è la
condizione generatrice (e di contro esiziale) di ogni moto espressivo. La tonalità e del colore corrisponde a quella
del canto nelle forme e nei modi di Leopardi e di Piero della Francesca, le due grandi e pulsatili , complementari
inclinazioni espressive di D’Aloisio, “… in un mondo … che si rivela di colpo come ad apertura di libro e gli uomini
sono guardiani dello spazio…” in cui “…gli stessi miracoli sono superati dalla onnipresente sublimità del giorno, del
lume, e della cara apparenza che ne risulta per le forme e i colori…”

Si fanno così apprezzare prove quali Figure nel bosco, Nella palude, Macchia, Marina 389 e soprattutto Paesaggio 262 e Paesaggio con cipressi.

Altrettanto significativa è la testimonianza di Chiara Strozzieri che annota al riguardo: “La stessa leggerezza
[degli oli] prevale negli acquerelli, mai eseguiti con arbitrarietà, in quanto la tecnica viene egregiamente dominata,
correlando precisione nel disegno e velocità dell’esecuzione. L’imprevedibilità dei colori ad acqua è giocata a favore
di certe sfumature funzionali alla rappresentazione, laddove le cime degli alberi tendono a scomparire all’orizzonte
o un paesaggio vuole fondersi con la propria immagine riflessa in un lago. Anche qui si lavora molto sul contrasto
chiaro-scuro e la luce prende il sopravvento sulla raffigurazione e sullo stato d’animo dell’osservatore, costretto a
un languire, a una malinconia quasi struggente. Davvero Carlo D’Aloisio da Vasto permette con gli acquerelli di
entrare in sintonia con la sua personalità artistica, perché dimostra il rispetto assoluto per il ricordo dell’infanzia
trascorsa in Abruzzo. Rende esplicito con la pittura quel sentimento che non manca di palesare nelle lettere private,
oggi riportate in alcune pregevoli pubblicazioni, come Discanto a cura di Pasquale Scarpitti…”

Nelle esperienze acquerellistiche più recenti, databili dalla fine degli anni ’50 ai ’60, l’A recupera infatti, al pari degli
oli, una gamma cromatica più naturale e gioiosa, tonifica l’azzurro tenero del cielo e delle marine, ricopre di verdi
smaglianti alberi e radure, rinvigorisce e riscalda gli stessi toni terrosi degli autunni. E’ di nuovo pittura libera ed
espressiva nel suo ossequio quasi infantile alla natura e al mondo. La luce “adamantina” riscopre un paesaggio
incantato a cui l’A. allega l’anelito di un ritorno, immaginando per se una schiusa stagione di appagamento e di
sensuale beatitudine. Ecco dunque la nuova stagione di Campi e marina, Paesaggio con case e alberi, Autunno,

Paesaggio lacustre e il fresco Marina con panni stesi, che sembra indicare solo come parentetica citazione nel volume urbano dello sfondo talune espressioni plastiche sironiane (cfr. M. Sironi, Paesaggio urbano, 1922, Roma, Coll. Sarfatti).

I disegni offerti in mostra si propongono piuttosto che come opere finite (seppure alcuni firmati) quali semplici
appunti o addirittura impressioni, talora poi resi in forma definitiva prevalentemente ad acquerello (cfr. il disegno
Spiaggia, poi composto in acquerello del 1930). Si segnalano comunque per l’immediatezza espressiva, il tratto
sintetico e l’assenza di svolgimento esogeno rispetto all’essenziale e irrinunciabile enunciato del vero.

E’ peraltro noto che D’aloisio era solito concedere “autonomia artistica ed espressiva” quasi esclusivamente a
disegni riguardanti la figura, segnatamente quella di bimbi e di madri.

Chiara Strozzieri scrive nel tema: “I disegni hanno una loro personalità e viaggiano parallelamente ai dipinti e agli
acquerelli, in un comune studio della linea. Questa è riempitiva e costruttiva, da sola riesce ad alzare un gruppetto di
case sulla collina e a nutrire cespugli folti e rigogliosi; certamente non fa avvertire la mancanza del colore, che in questo caso è facilmente immaginabile e reso più o meno intenso dallo spessore del tratto e dalla frequenza del gesto”.

Che dire in conclusione!
Che è un D’Aloisio prevalentemente “tardo” quello proposto in Mostra?

Noi preferiamo adottare piuttosto i termini di un D’Aloisio “liberato” nel segno e nell’espressione, capace di un
distillìo stilistico certo ed appagato (non oseremmo mai dire “definitivo”) dal fascino intatto o addirittura ricco
di nuovo interesse formale in un malcelato ed onestissimo pudore espressivo che trapassa a momenti, oltre i
canoni consueti e condivisi della sua arte “affermata”, in prove di rinnovata e seducente freschezza, di reimpastato
cromatismo fino a raggiungere talora risultati di insospettabile virginale novità.

Pasquale Del Cimmuto