I paesaggi dell’anima di Carlo D’Aloisio da Vasto
Tra L’IDEA/ e la realtà/….. cade l’ombra, scriveva T.S.Eliot ne Gli uomini vuoti. Tra l’idea e la realtà oscilla, cade talvolta e si riassesta in continua ricerca di un equilibrio, di un’armonia che paiono non essere il retaggio di questi anni, l’arte del ‘900. Proprio all’indagine dei rapporti tra pittura e realtà potrebbe essere dedicata la mostra su Carlo D’Aloisio da Vasto a illustrare, tramite la sua espressione artistica, un periodo compreso tra il 1908 e il 1971, anno della sua morte. Così maestri riconosciuti come tali dalla pittura del Novecento, da Corot, Coubert, Cezanne e Van Gogh, Penneke, Picasso occhieggiano nelle tele del Nostro a testimoniare la necessità di radicarsi in una tradizione nuova e già illustre avvertita, peraltro, dai giovani artisti italiani. A ciascuno la sua realtà, può essere riassumendo e semplificando la lezione scaturita dalle tele e dai fogli dei maestri, i conquistatori della libertà assoluta restituita alla pittura. E, non a caso, è anche da tali precursori, che hanno insegnato a forzare le forme, spezzare i contorni, a esigere nuovi accordi, scomponendo e rielaborando il prisma, che derivano parte delle espressioni di Carlo D’Aloisio. Perché tra coloro che assumono la realtà visibile, immediatamente percepita e trasposta sulla tela, quale soggetto artistico, e coloro che fissano il proprio sguardo sulla realtà che sta “dietro” l’apparenza, cercando di cogliere la forma interiore, l’essenza prima e immutabile degli esseri e delle cose, Carlo D’Aloisio è nella schiera di questi ultimi. L’arte che rivela l’ignoto si qualifica allora come atto conoscitivo. E, a sua volta, fondatore di una realtà inedita è intimamente creativo…… tra il gesto / e l’atto/ cade l’ombra. Così il nostro artista, attraverso le sue opere, testimonianze profondamente individuali di modi di essere e di rapportarsi agli altri, agli oggetti, ai luoghi, ai sentimenti, alla memoria, ripropone il nuovo linguaggio che, attraverso Morandi, De Pisis, Carrà o Sironi, afferma un’intensità particolare del sentire. Dalla realtà, alla quale applica la forza della finzione e il filtro della sensibilità, egli estrae poesia. Dall’atto unico e creativo, si distingue il gesto mimetico che sottrae al divenire del tempo fisionomie e fenomeni che combinano sullo spazio della tela la lotta che lacera la vita. Ma la creazione non ama l’eteronomia.
Per vie più segrete l’arte educa e soccorre come dimostrano le opere di Bacon, Fautrier, Sutherland, Giacometti, i fratelli che condividono in Europa i conflitti che affliggono gli artisti italiani con opere che confermano la possibilità di nuove interpretazioni, di inedite relazioni, quindi, tra arte e realtà. E sono quelle che cercano di instaurare gli artisti che Francesco Arcangeli ha chiamato “ultimi naturalisti” Melotti, Moreni, Mandelli, Benditti e tra questi, a buon diritto, può iscriversi Carlo D’Aloisio da Vasto. Raramente, ormai, gli involucri tollerano l’urgenza delle pulsioni senza deformarsi, senza esplodere. L’esistenza minacciata dal ripetersi dei conflitti, stenta a ricostruire il tessuto relazionale. Le immagini, i paesaggi che si proiettano sulla tela elaborano nei termini di una coscienza più volte lacerata, eppure prepotentemente ansiosa di riaffermarsi creativa, dati e suggestioni provenienti dal mondo della realtà.
Perché è un percorso intenso e articolato quello compiuto da Carlo D’Aloisio da Vasto nel suo viaggio durato l’intera esistenza. Trapela la sua continua ricerca dell’io e della verità umana, reinterpretata attraverso le esperienze espressive dei tempi moderni. E’ una pittura apparentemente “leggera” e tuttavia aumentano nelle sue tele anche gli spunti su cui riflettere e l’opera pittorica con i colori, le forme, e a volte i materiali, diventa momento di condivisione con lo spettatore delle opinioni dell’autore. Sicché l’arte, che è comunicazione, messaggio di trasformazione, nelle tele di Carlo D’Aloisio si trasforma in una massa critica legata all’energia, alla luce, all’ecologia. E’ una pittura leggera e nello stesso tempo impegnata quella del nostro artista, piena di continui insegnamenti per l’autore ancor prima che per i fruitori della sua arte. Il suo messaggio si costruisce nel tempo e con il trascorrere di questo muta e si modifica. Così l’arte diviene un veicolo espressivo per studiare l’esistenza umana nella sua contemporaneità e nelle sue continue contraddizioni, tra la materialità e l’essenzialità. Per questo, nonostante si sia ben presto allontanato dall’Abruzzo, le rivolge la propria attenzione. A partire dagli anni’50, infatti, le scene della quotidianità ambientale costituiscono la parte fondativa della sua pittura. Ne scaturiscono dipinti sempre diversi, destinati ad affascinare, caratterizzati da un intimo lirismo che avvolge ogni scena e ogni particolare. Carlo sa di andare “contro” la sempre più diffusa tendenza di cancellare il valore dell’ascolto, la tendenza, cioè ad alienare quel che si ha dentro in rapporto con l’esterno.
Non è un caso che il maestro amasse dipingere l’aria aperta e dipingere tutto ciò che il proprio sé ascoltava dall’ambiente circostante: marine, distese campestri, pianure lontananti sino a confondersi con vette a contatto del cielo. E tuttavia la laevitas espressiva talora si muta in segno palpitante della solitudine dell’uomo: alberi che tendono rami scheletrici al cielo, paludi e strisce marine meno brillanti che sembrano alludere alla caducità e, ancora, paesaggi per analoghi scenari intrisi di malinconia e dal senso dell’evasione della quotidianità. Una siffatta evasione non significa, tuttavia, sfuggire dai dati dell’ascolto dell’ambiente circostante. Ciò che più colpisce infatti in questi lavori è il modo in cui l’artista ha saputo riportare sulla tela un’atmosfera dalla quale talora emana il “salmastro” che dal mare penetra in ogni viuzza e casa, impregnandone l’aria; tal’altra nella quale si materializzano le masse deformate di covoni, di alberi e persino del somaro, intento al suo misero pasto quotidiano. Virtuoso del disegno, come è dato osservare nella sezione dedicata ai suoi disegni, colorista innato e acuto osservatore, il suo modo di dipingere è nel tempo e fuori del tempo; conservativo e dinamico perché rivolto all’eterno umano di ora e di sempre. Oggettiva più che razionale, lucida più che cerebrale, intuitiva più che emozionale, la sua pittura è di contenuto espressivo in una forma al contempo fedele ai canoni tradizionali, di ascendenza boldiniana e permeabile ad influssi decisamente modernisti.
E poi la luce, che non è una novità nella pittura di Carlo D’Aloisio ma mentre nei primi frammenti era luce che aveva solo un ruolo da “comprimario”, negli ultimi anni, invece, diventa il soggetto delle sue tele, perché la luce ormai monopolizza il quotidiano sicché non se ne decreti la fine, quasi a preservare la bellezza del sole, dell’intimo calore. Così, lontano dall’artificiosità della luce dei luoghi chiusi (interni di manufatti antichi o recenti), l’artista aspira costantemente alla natura con la sua luce, per non concedersi al buio che, nella sua ottica, rappresenta una situazione primordiale, non solo “notte della contemporaneità”, ma anche la zona di confine tra interno ed esterno. E in effetti è significativo quanto lo stesso artista nelle sue tele, solo apparentemente piene delle forme del paesaggio sfolgorante, tenda a produrre schok emozionale attraverso il colore e la luce, solare livida, serena, cupa, smorta, limpida, esangue, chiara. La vita, apparentemente sconfitta, è proprio attraverso questo colore e queste luci che riemerge e riaffiora superando il profondo conflitto tra ricerca di una “Verità Immateriale” ed una reale “falsità materiale”, in un mondo simbolicamente inerte e svuotato da ogni artificio. Allora dipingere un paesaggio, frammentato nelle forme e nei segni, diventa, paradossalmente, il tentativo estremo di ricostruire valori in un mondo che va perdendo la propria bellezza e rinnegando la natura e il suo valore di principio vitale e archetipo espressivo.
Il Direttore del Polo Museale
Paola Di Felice