Pasquale Del Cimmuto – Convegno Università D’Annunzio, Chieti 2022

Il contributo di Pasquale Del Cimmuto alla Conferenza su: «Carlo d’Aloisio da Vasto, Artista e Promotore di Arte e Cultura» svoltasi Mercoledì 13 Aprile 2022, in occasione del 130° della nascita dell’Artista, presso l’Università «Gabriele D’Annunzio» di Chieti – Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali Aula Magna di Lettere con i Contributi e le Testimonianze di: Francesco LeoneMaria Cristina RicciardiPaola Di FelicePasquale Del CimmutoMonica De RosaLucia ArbaceSergio GuarinoCarlo d’Aloisio Mayo


Il “Mio” Carlo d’Aloisio da Vasto

Un cordiale buona sera a tutti voi e grazie per la vostra gentile presenza.

Devo preliminarmente esprimere tutta la mia soddisfazione per essere, fin dal primo momento, parte attiva nel complesso delle iniziative culturali, tese a collocare  la complessa, multiforme figura artistica di Carlo d’Aloisio da Vasto nel giusto rango del casellario artistico nazionale.

Quella che così si propone è nel suo complesso operazione impegnativa, non solo per la “profondità” conoscitiva e critica alla quale intende operare ma anche per il massiccio cointeressamento di Istituti, enti ed Associazioni chiamati ad offrire, oltre ogni valutazione puramente estetica,  ciascuno per la sua competenza,  un più ampio contributo di identità e di memoria in nome di questo valevole artista.

Colloquio, 1921

In questo mio intervento, in cui parlerò esclusivamente del D’Aloisio pittore (atteso che egli, artista multidisciplinare, fu anche disegnatore, xilografo, illustratore, decoratore, nonché editore e critico oltre che Direttore del Palazzo delle Esposizioni e della Galleria Comunale di arte Moderna di Roma).

In questo mio intervento, dicevo mi sono applicato convintamente nel tentativo di definire un profilo critico quanto più condivisibile e oggettivo dell’Artista, nel formulare un giudizio massimamente alieno da un personale, quantunque modesto, vizio di simpatia, oserei dire di affetto che ho nei suoi confronti.

Mi richiamerò peraltro quasi integralmente a dei concetti espressi e sviluppati in catalogo in occasione delle due rassegne espositive dedicate, ultime in ordine di tempo, all’artista vastese, la seconda delle quali, la più importante, organizzata insieme alla dottoressa Paola Di Felice in quel di Teramo nella primavera del 2015 .

Chi fu dunque Carlo D’Aloisio da Vasto. Come collocarlo nel suo tempo di arte e di vita.

Pellegrini, 1920

La vicenda artistica di Carlo D’Aloisio, partito dalla sua Vasto (con quel “da Vasto” che egli aggiunge al suo nome in una sorta di patronimico) portando  con sé tutto l’universo animato d’Abruzzo e il suo archetipo di “… mondo contadino, pastorale e familiare -…” si svolge a Roma, tra gli anni Venti e Trenta del XX secolo, in un clima di vigoroso fermento culturale, popolato di personalità artistiche fortemente animate da concrete istanze innovative.

Egli si pone saldamente “al centro” di stilemi e tematiche della nascente corrente pittorica romana, partecipe e quindi artefice di quegli eventi.

In tale contesto egli si libera definitivamente di ogni scoria di “regionalismo e naturalismo”, scarta  senza fatica le “mitografie dannunziane e quelle di una grandeur italica” e aggiorna al contempo il suo bagaglio tecnico e figurale conservando però nei temi soprattutto il mondo contadino, seppure traslato di necessità da una statica dimensione di idillio a quella di dosata e  svaporata metafora, di analisi più aderente del quotidiano, con evidente disincanto e, dopo un’appropriazione tono-tematica graduale, sotto “… una trasparenza assoluta in una luce meridiana e italiana diventata ordine e costruzione della sensibilità, dei pensieri, delle forme pittoriche…” Così come scrive Dario Micacchi nel 1981.

Sosta a sera, 1922

Al tempo egli promuove una sua specifica revisione dei correnti canoni ottocenteschi, diffondendo il personale concetto di “tonalismo” e segnalandosi come uno dei capisaldi del nuovo indirizzo artistico che andava connotando in quegli esordi la cosiddetta “Scuola romana”.

Stringe un sodalizio artistico con Roberto Melli, definito “pittore costruttivo-tonale” all’avanguardia e con Luigi Trifoglio, anch’egli emigrato a Roma dalla natia Umbria che con lui contribuiscono non poco alla fluente ricerca estetica di quel momento creativo e fondante.

Scrive Dario Micacchi: Erano, i tre, schivi e incuranti del successo, “…. si chiudevano nella loro indipendenza, preoccupati dal tormento di ogni artista, che è di approfondire la personalità, esplorarla, per dare la massima concretezza di idee lungamente cercate… ” mentre “… gli altri” – precisa il critico –  “si preoccupavano del pubblico”.

E sempre Micacchi, scrivendo di D’Aloisio,  ne esalta il contributo artistico incontestabilmente personale in quella Roma straordinariamente inebriata di  innovazione e creatività: “… figura primaria negli anni venti con la sua pittura di una forma-luce adamantina e mediterranea da alba del mondo, Carlo D’Aloisio da Vasto  … fu anche sotto certi aspetti di significato e di forme un anticipatore di quel chiarismo tonale che si inserì nel grande momento creativo degli anni trenta ricco di nomi illustri quali Cagli, Cavalli, Janni, Capogrossi, Ziveri, Francalancia e anche di Mafai …”

Paesaggio, 1923

Alla II Quadriennale romana del 1935 i tre, Trifoglio, Melli e D’Aloisio, furono accolti e considerati per la loro reale importanza e D’Aloisio lo fu anche alle Biennali veneziane del ’34 e del ’36.

Il destino fu comunque avaro e cinico con lui.

Seppure anticipatore di modi e tendenze tonali che così largo impulso ebbero nelle correnti artistiche del suo tempo egli si vedrà ignorato anche dopo la sua scomparsa, dagli organizzatori di importanti rassegne retrospettive non solo nazionali quali quella di Bologna  La Metafisica – Gli anni venti del 1980 e soprattutto quella parigina Les rèalismes entre rèvolution et rèaction 1919-1939 ospitata al Centro Georges Pompidou nel 1981.

Dando uno sguardo alla produzione artistica di D’Aloisio, dobbiamo registrare almeno tre fasi creative maggiori: l’esordio, la maturità e l’età tarda; pienamente leggibili e caratterizzate tutte nel tempo da un nocciolo di sostanziale, quasi verginale integrità tematica e stilistica.

Recavano altresì quali salde matrici intangibili il dato tonale e la sostanziale laconicità elaborativa delle forme lasciando trasparire al contempo una coraggiosa tendenza all’”unitarietà” dell’opera, da alcuni critici indicata  onestamente come “…costruttiva e rispettosa dei principi dell’estetica”.

Paesaggio, 1934

I primissimi esordi e la produzione giovanile sono fatalmente irretiti dalla tradizione artistica vastese, segnatamente quella “palizziana” o anche, se volete “laccettiana”; si consideri a tale riguardo l’onomatopeico olio su tavola Aprile del 1916.

Gli originali temi legati al mondo contadino e marinaro,  subiscono una successiva evoluzione, certamente sotto l’influenza della aggiornata figurazione regionale, maturata accanto ai modi pittorici di fine secolo, sulla scia, come a noi sembra, verosimilmente, più di un Tommaso Cascella che di altri. Significative in tal senso sono le opere Colloquio, un acquerello del 1921 e Pellegrini, un olio del 1920.

In questa fase la tavolozza, sempre molto pudica, gode solo moderatamente di toni accesi e ricchi e i temi sono ancora, inevitabilmente quelli della ”epopea contadina e rurale”. Seguono a breve distanza di tempo, ma sostanzialmente con gli stessi accenti modali, Sosta a sera (olio su tavola del 1922) e Paesaggio (olio su tavola del 1923).

La maturità, riferibile agli anni dal 1930 al 1950 e comprendente il cosiddetto “periodo umbro” (che va’ a sua volta approssimativamente dal ‘40 al ’45) consolida il suggello cromatico tonale nel giusto dialogo con le forme. Queste si confermano di una plasticità essenziale e di un disegno dichiaratamente omomorfo segnatamente nel rapporto struttura-paesaggio: vedi l’olio su tavola del ‘34 Paesaggio e  l’acquerello del ’35 Le tre casette.

Le tre casette, 1935

Si impongono al tempo, oltre alla necessaria ”urbanizzazione” dei paesaggi (Periferia del 1948), altre tematiche, seppure marginali, quali quella affettivo-familiare (La madre, 1930; Giovanni, 1933; Con Anna, 1934) e la natura morta (Natura morta con coralli, 1933).

Il cosiddetto “periodo umbro”, coincidente con un soggiorno quinquennale del Pittore in quella regione, è connotato di suo (quasi) esclusivamente dalla tematica paesaggistica con una particolare espansione del rapporto volumetrico degli oggetti (nella fattispecie strade e case isolate) e la loro propensione relazionale con la natura circostante, a sua volta rappresentata sempre in forma simbolicamente “maieutica” come montagne dal profilo sinuoso  e procidenze mammillari.

Il tutto con la scelta di un colore che ora si accende e sfavilla quel tanto ora si incupisce di desinenze terrose e pudiche. La materia pittorica qui è comunque scabra ed opaca ed il colore assume per suo conto una forte valenza disegnativa.

Una tappa importante e significativa è in questo periodo la Mostra milanese del 1932 presso la Casa egli Artisti con una presentazione critica di Carlo Carrà. Questi ne apprezza letteralmente non solo “… la solita abilità di mano e il solito virtuosismo … ma uno scavare fecondo, un amor schietto che rifugge dai facili effetti e dallo sfarfallamento di cromatica piacevolezza”.

Periferia, 1948

Altrettanto significativa è la presenza dell’Artista alla Bottega d‘arte di Livorno nella primavera del 1933 con nota in catalogo di Michele Biancale il quale scrive: “… la maggior parte di questi dipinti ci comunicano la pura emozione dell’artista. Campagne, acque, buoi al lavoro, visioni di paesi, contadini, tutto s’include in un modulo di visione che da qualche tempo noi andiamo controllando come peculiare al D’Aloisio, il quale per essere partito da una posizione nettamente regionalistica e per aver in seguito compreso che il regionalismo era da abolire come rappresentazione di particolarismi dannosi, ma da interpretare piuttosto come puro motivo naturale  e sentito in modo semplice e piano, è nella migliore condizione per procedere verso una completa conquista dei suoi mezzi espressivi”.

Dopo il 1950 D’Aloisio allenta la tensione emotiva sull’analisi e sulla ricerca ancorché residuale, recupera fino al limite dell’elementarismo una naturalezza pittorico-cromatica essenziale.

Egli arricchisce la sua tavolozza di un “… colore ansioso e patetico che viene comunque a sconvolgere la certezza di visione e la costruzione adamantina perseguita per lunghi anni. Ma era il momento del panico esistenziale dell’Informale e di tutta la gestualità informale e Carlo D’Aloisio deve aver sentito vacillare la costruita armonia tra pittura e vita …”.

Lo smarrimento prelude poi  “… alle immagini rare degli anni sessanta – scrive Dario Micacchi – dove tutto quel fiammeggiare di colori di una vita in ansia si placa e vive in una nuova serenità di  oggetti.” Sono da leggere in tal senso opere quali Natura (olio su cartone, 1955) e Casa del contadino (olio su cartone, 1955)  nonché una interessante serie di nature morte.

La madre, 1930

Fin qui l’artista. Ma molto altro c’è da dire sull’uomo!

“Uomo di grandi battaglie spirituali, il D’Aloisio porta nella pittura l’ardore delle sue passioni ed i suoi particolari convincimenti”, così lo definiva Carlo Carrà nel 1932.

Dalla sua parte c’erano oltre la coerenza e il rifiuto pregiudiziale di ogni forma di esteriorismo una tecnica finissima, acquisita e perfezionata in ogni espressione  (l’olio, l’acquerello, il disegno, l’incisione); c’era il solido e rassicurante ancoraggio alla matrice figurativa, con la costante disponibilità a piegarne il segno e il colore ad ogni moto innovativo ancorché avvertito quasi  come temerario.

Nella sua dinamica percettiva gli sosteneva, come scelta operativa primaria, il ruolo dell’impressione e del sentimento affidandolo poi ad una distillazione segnica e soprattutto tonale di una naturalità piana e leggibile, vaporosa,  gratificante nella sua esplicitazione, e rassicurante nel lessico.

Giovanni, 1933

“Nella sua arte (si vedano i paesaggi o i ritratti) non c’è malinconia, né rimpianti, né sottigliezze intellettualistiche; egli accetta la vita e trova diletto nella sua pittura dove si sente un’anima vibrante dinanzi alle mille sensazioni che la natura offre”. Scrive al riguardo Antonio Porcella.

D’Aloisio sviluppa la sua narrazione pittorica popolata di case, piazze e borghi, contadini e pescatori, nel mai dismesso ambito del realismo e della tradizione, segnalandosi così più per l’incardinamento ad una irrinunciabile essenza di “visibilità “ e di “comprensione”  che per  la presunzione profetica di certa arte (anche del suo tempo), sostenuto in questo da una innegabile onestà espressiva, libero dall’obbligo e dal disagio di ossequiare calligrafismi esasperati o anche l’assillo di una esternazione necessariamente concettuale.

E proprio da questa semplicità, quasi una disarmante ovvietà, da questa serena acquiescenza discende l’importanza del contributo di D’Aloisio nell’ambito della Scuola romana degli anni trenta alla corrente pittorica che adotta il cosiddetto “chiarismo tonale” altrimenti denominato “tonalismo” anticipativo di numerose esternazioni esperienziali di celebrati colleghi del suo tempo, tra i quali spiccano i nomi di Corrado Cagli, Giuseppe Capogrossi e Mario Mafai.

D’Aloisio di fatto ha sempre adottato nella sua paziente ricerca un atteggiamento disincantato, fanciullesco seppure consapevole (in subordine) costantemente e coerentemente dell’obbligo esegetico (quasi morale) di non potersi  sottrarre  alla oppressiva contaminazione dialettica del suo tempo, ma di doversi bensì offrire senza remore alla obbligata, prepotente permeazione sillogistica indotta dal magma espressivo della vorticosa sua contemporaneità.

Con Anna, 1934

Se è vero che egli rappresentò il paesaggio (soprattutto), le scene di genere (segnatamente della campagna e della marina), aderendo sommessamente alla silloge della grande tradizione regionale, o il catalogo umano del ritratto e della figura nelle sue varie espressioni, gli oggetti e le nature morte, egli lo fece rispondendo in primis all’esigenza maieutica di una vera offerta virginale, con gli occhi limpidi e innocenti, pascoliani di fanciullo appagati della pura urgenza raffigurativa della semplice eppure straordinaria sola duplicazione del reale, testimone primigenia nell’arte, da che mondo è mondo, del tentativo “magico” nell’umano di una riduzione segnica del creato.

Nel Nostro subentrerà solo dopo la necessità, contestuale e formale (e comunque mai sofferta) di aggiornare (seppure minimalmente) quel catalogo percettivo a fronte di un mondo altro (ormai lontano dalla sua Vasto) e di un tempo più ampio e articolato che andava nel mentre svolgendo inesorabilmente la sua ricerca oggettuale e stilistica, frantumando la figura e affinando in altra direzione la sua forma espressiva.

Egli fu costantemente sorretto dalla semplice e “…cara apparenza delle cose” come ebbe a scrivere Dario Micacchi in una nota del 1981.

D’Aloisio non fu pittore “di genere” né tantomeno un’avanguardia; piuttosto fu interprete “di conversione intimista e di memoria” ove intimità e memoria seppero conservare per tutto il tempo una loro presenza come irremovibile, pervasiva sovra-stratificazione culturale.

Natura morta con coralli, 1935

E la sua terra, L’Abruzzo, fu sempre, “teneramente e dolcemente” una grande madre ispirativa e appagante, declinata e decantata in una profonda espressione spirituale talora esplicita (come nel carteggio del monumentale Discanto poderosa opera-testamento del corregionale Pasquale Scarpitti ove D’Aloisio prende commiato da quella grande  madre “con voce commossa”) ovvero il più delle volte nella dimensione della nostalgia sottesa, dopo averla “risognata” come “sposa, vergine, intoccata e intoccabile” e “ridesiderata” nel segno di quegli “amori tenuti gelosamente nascosti, – scriveva – racchiusi nel cuore e goduti in una solitudine, in un godimento spirituale della natura e dei suoi colori”.

Una particolare menzione meritano infine, nel complesso della produzione  di D’Aloisio i già citati “paesaggi” che dalla fisicità assoluta dell’ambientazione iniziale mutuano pian piano verso una personalissima risoluzione talora metafisica talaltra (come nel ciclo dei “paesaggi umbri”) paradossalmente assai prossima ai canoni dell’astratto o dell’informale.

I paesaggi costituiscono di fatto un complesso creativo che svolge integralmente, in una sorta di sintesi naturale il catalogo ispirativo ed espressivo completo dell’arte di D’Aloisio da Vasto e costituiscono in una accezione sublimata, ma del tutto esaustiva, una testimonianza esemplare della sua ”pittura del ricordo”, un testamento spirituale per una vocazione all’arte coltivata  nella cara reminiscenza dei luoghi, nella sospensione macerata e nostalgica del tempo per offrire in fine una espressione poetica connotata dall’aderenza e dalla sincera rispondenza ai moti dell’anima.

Il tutto per consegnare all’arte e alla storia il significato di una vita e ancor più la testimonianza di un indefettibile rigore intellettuale.

Grazie

Pasquale Del Cimmuto


Qui l’Articolo di presentazione dell’evento

 

 

 

 

 

 

 

Qui il Video dell’evento (il contributo di Pasquale Del Cimmuto è dal minuto 56′ e 30″)