Dario Micacchi – Catalogo Mostra Antologica, Vasto 1981

Carlo D’Aloisio Da Vasto: della sublimità del giorno e del lume e della cara apparenza delle cose

“… spero che il pubblico la guardi, questa mia espressione pittorica, in silenzio ed a lungo, per comprenderla. Perché il colloquio d’arte è fatto di silenzio e di tempo.” Carlo D’Aloisio da Vasto

C’è un grande ritorno caotico alla pittura. Un ritorno alluvionale che fa confusione altrettanto grande sulle larghe strade e sui piccoli e solitari sentieri su cui è avanzata, tra difficoltà esistenziali e sociali d’ogni specie, l’arte moderna in Italia.

Dopo i tentativi delle neoavanguardie di uscire dalla pittura nell’happening, nella performance, nello spettacolo, nella strada, nei movimenti di massa, nel bricolage dei materiali dell’”arte povera” o, all’opposto, nella compromissione concettuale; il mercato d’arte italiano sta riciclando tutta la pittura possibile.

E le novità pittoriche, che partono da zero come le neoavanguardie, si dicono “Postmoderno”, “Transavanguardia”, “Magico primario”, “I Nuovi Nuovi”, “La Qualità” : tutti fuggono da un presente appestato e dicono che non possono perdere nulla del passato, che cercano con nomadismo creativo un genius loci, un primordio, un selvaggio, che nel cono d’ombra, anzi nel “buco nero” delle ideologie, cercano giustificazione al loro esistere pittorico nell’essere in transito o nella qualità o nella bellezza serrata nei musei. Insomma, secondo le vecchie leggi di mercato riscritte sul mercato nordamericano, pittura caccia pittura proprio dentro il ritorno alluvionale.

Del grande ritorno ci fu un segnale fondamentale con l’importante mostra allestita, ne maggio-agosto 1980, a Bologna e titolata “La Metafisica-Gli anni venti” e c’è stata la consacrazione internazionale quest’anno, a Parigi al Centre Georges Pompidou, con l’abile tempestiva operazione critica di Jean Clair che ha montato la gigantesca e ambigua mostra “Les rèalismes entre rèvolution et rèaction 1919 – 1939” (una mostra che avremmo dovuto fare noi, in Italia, e assai meglio, se non fossimo occupati perennemente nello scannamento di clan e nel sorpasso di clan piccini piccini). Volteggiando al largo e in alto gli americani hanno giuocato la loro grande carta della pittura con la mostra di Edward Hopper partita dal Whitney Museum e che sta girando l’Europa.

Se ho accennato a questa situazione artistica e critica – spesso è la critica “creatrice” che con le sue “tesi” tira la volata alla pittura – è perché il carattere alluvionale del ritorno alla pittura non favorisce la verità sulle vicende dell’arte moderna in Italia, ancora non tutte documentate o scarsamente documentate, soprattutto presso chi non ama, anzi teme la storia. Siamo quindi davanti a nuovi azzeramenti e a nuove cancellazioni.

Si pensi al caso di Carlo D’Aloisio da Vasto che pure il suo autentico genius lo aveva nel mondo contadino, pastorale e familiare di Abruzzo ma, liberatosi con estrema naturalezza di regionalismo e naturalismo, scartò le mitografie dannunziane e quelle di una grandeur italica che portarono un De Carolis agli orridi affreschi michelangioleschi di Bologna, e trasferitosi a Roma, con sensibilità pittorica rara e coscienza culturale ancor più rara, nella frequentazione amicale di un pittore costruttivo-tonale all’avanguardia come Roberto Melli degli anni venti e nel “clima” moderno italiano e quattrocentesco di “Valori Plastici”, si confermò nel suo lirismo d’una vita quotidiana e familiare e di un mondo contadino sempre ritrovato restituiti come diamanti di un vissuto di una trasparenza assoluta in una luce meridiana e italiana diventata ordine e costruzione della sensibilità, dei pensieri, delle forme pittoriche.

Ebbene, figura primaria negli anni venti con la sua pittura di una forma-luce adamantina e mediterranea da alba del mondo, Carlo D’Aloisio da Vasto, che fu anche sotto certi aspetti di significati e di forme un anticipatore di quel chiarismo tonale del grande momento degli anni trenta di Cagli, Cavalli, Janni, Capogrossi, Ziveri, Francalancia e anche di Mafai delle donne ignude che stendono i panni, è stato semplicemente cancellato nella mostra “La Metafisica – Gli anni venti” a Bologna e in quella dei “Rèalismes” a Parigi.

Sembra che i francesi, e non solo i francesi, abbiano scoperto, tra gli altri, e nel grande successo degli italiani, Felice Casorati ed Edita Broglio. Bene per la Broglio: si dice che sia stato anche un grandissimo successo di mercato; ma perché tutto ciò deve avvenire sempre accompagnandosi alle sistematiche cancellazioni e che spesso fanno un tale spessore di silenzio che sembra che non si possa più spezzare? C’è da augurarsi, dunque, che questa grande mostra organizzata a Vasto sia l’avvio di una pronta riconsiderazione della personalità primaria di Carlo D’Aloisio.

A Roma, nel 1974, i trenta acquerelli che Corrado Cagli e Antonio Porcella scelsero per presentare il pittore tra il 1920 e il 1930 furono una grossa sorpresa: quella luce italiana, e mediterranea, serena cristallina e ridente come nella grande pittura a fresco dell’Italia Centrale fra Trecento e Quattrocento, attraverso lo sguardo, forse un po’ distratto, penetrò così profondamente in me che mi ha accompagnato da allora senza che riuscissi a spiegarmi il perché di quella folgorazione.

Ora li ho rivisti, assieme agli acquerelli e ai dipinti fatti in Umbria, ai quadri degli anni cinquanta dove un colore ansioso e patetico viene a sconvolgere la certezza di visione e la costruzione adamantina perseguita per lunghi anni (ma era il momento del panico esistenziale dell’Informale e della gestualità informale e Carlo D’Aloisio deve aver sentito vacillare la costruita armonia tra pittura e vita), e alle immagini rare degli anni sessanta dove tutto quel fiammeggiare di colori di una vita in ansia si placa e vive in una nuova serenità di oggetti (tra Morandi e Mafai).

Li ho rivisti e credo di poter accennare alla qualità della luce che li sostanzia e ne fa la straordinaria, costruita bellezza. Dal punto di vista dello sguardo e del sentimento i motivi contadini e familiari dell’ambiente abruzzese Carlo D’Aloisio li ebbe subito cari ma allo stesso tempo ne ebbe orrore come folclore e spettacolo (quel folclore e quello spettacolo che altri artisti e scrittori d’Abruzzo piacevolmente portavano in giro per l’Italia e per l’Europa).

C’è una rivelatrice serie di silografie, una tecnica molto in voga e apprezzata allora nell’illustrazione di motivi rustici di natura o di ambiente pastorale e contadino che fossero, che è dedicata alla terra e alla gente d’Abruzzo. La stampa è del 1920 e Carlo D’Aloisio sui segni netti e vigorosi dell’immagine stampata stende un acquerello, variando il colore da foglio a foglio, come una nuvola trapassata dai raggi del sole, spegnendo la forza dei segni per un fulgore, una qualità dolcemente raggiante dell’immagine tutta. Insomma, il pittore che pensa e costruisce l’immagine con la luce, scegliendo di essa un momento meridiano e facendone la qualità simbolica ed eterna della visione, è ancora inconsapevole ma lievita in queste immaginose sovrimpressioni di colore-luce sulla stampa.

Quando è a Roma, Carlo D’Aloisio vede subito giusto e conferma clamorosamente le primitive intuizioni liriche su figure umane, familiari e contadine, e ambienti, quello della casa e della terra. C’era il grande somministratore di impressionismo casereccio, lo Spadini, e Carlo D’Aloisio sente subito il falso recitato da tutte quelle figure ridenti e col sole in faccia. C’erano altre cose da vedere e le vide con occhio infallibile. Virgilio Guidi, romano prima che veneziano, gran cacciatore di luce e capace di fissarla in quel magico “Tram” del 1923 che sembra salire al cielo come in una pala del Quattrocento. E l’amico Roberto Melli, gran costruttore di forme, con l’amata moglie, murata nella luce in tutte le pose nella casa al Testaccio come un Annunciata quattrocentesca sempre in attesa dell’angiolo che non viene mai. E Riccardo Francalancia, san Francalancia di Assisi, che cercava per i paesi umbri e i calanchi e le colline deserte la luce che ci aveva visto Giotto. E ancora la qualità di una luce colta, vellutata, serena e rassicurante che veniva dalle fini interpretazioni quattrocentesche di Mario ed Edita Broglio (più magica e ossessionata dalla luce vera la pittrice). E poi Mario Mafai con quei corpi di donna al sole dei primi anni trenta avanti le stanze sventrate delle “Demolizioni”.

Più lontano, un grande, grandissimo misuratore della durata delle cose umane sotto lo scivolo cosmico della luce regolato, dosato, guidato da un occhio infallibile, tanto certo quanto malinconico nella sua solarità: dico di Giorgio Morandi che Carlo D’Aloisio non imita mai ma che, come pochi, nel segreto di dare forma capiva e amava. Forse, a lui, all’animatore dell’almanacco degli artisti “Il vero Giotto”, non saranno dispiaciute certe pagine di Cardarelli sulla mitica Etruria e sul presente che piglia forza dal passato ne “Il sole a picco” del 1928 con 22 disegni di Morandi.
Ma credo, per lui come per tanti altri che dipingevano moderno e italiano senza esser Novecento, dovettero essere rivelatrici certe radiose formule di Roberto Longhi nel suo Piero della Francesca del 1927: come “sintesi prospettica di forma e colore” o “adesione alle realtà naturale mediata dalle forme di una intelligenza razionale” (e a regger la formula di Piero c’erano Cèzanne, Seurat e Morandi). E dovette riflettere anche su quella “rarefazione magica del quotidiano” di cui parlava Massimo Bontempelli col suo realismo magico.

Quando guardiamo il mondo tutto in luce e in assoluta trasparenza che Carlo D’Aloisio ha fissato in straordinarie immagini quali “Colloquio”, “Pastori”, “Donne alla fontana”, “Sull’aia”, “Il figlio”, “Estate”, “Bambina e poltrona”, “Figura nel paesaggio”, “Mamma bianca”, “Raduno”, “Madre”, “Natura morta con coralli”, “Pigne e lumachine”, “Natura morta” 1930, “Vita di paese”, “Lungo i binari”, “Contadina con colomba” – e sono alcune di una lunga sequenza che arriva fino alle nature morte del 1960 con la stella marina, con la bottiglia bianca e con il ventaglio – dobbiamo convincerci che per una tenuta di luce di questa qualità lungo decenni – e che drammatici decenni per l’esistenza e per la pittura! – ci volle un’immaginazione, una moralità, uno sguardo non solo tesi al necessario della vita ma capaci di trasporto visionario di questo necessario: altrimenti il quotidiano, gli affetti familiari, il mondo contadino, la terra e il mare d’Abruzzo non sarebbero mai potuti salire nella gran luce della pittura.

Un mondo, come diceva Roberto Longhi di Piero, che si rivela di colpo come ad apertura di libro e nella solarità infinita gli uomini “sono guardiani dello spazio”. E come non ricordare davanti a questa luce proprio un passo del Longhi a proposito del ritrovamento della vera Croce “…Ed è, ancora, un composto solennissimo di paese e architettura, abitato naturalmente dagli spettacoli umani quali sogliono apparire nella luce di un rasente pomeriggio italico; dove pare che gli eventi più aulici e gli stessi miracoli siano superati dalla onnipresente sublimità del giorno, del lume, e della cara apparenza che ne risulta per le forme e i colori”. Sublimità del giorno e del lume e cara apparenza delle cose: questa l’eredità preziosa, moderna di Carlo D’Aloisio da Vasto.

Roma, 19 luglio 1981

Dario Micacchi, Introduzione alla Mostra Antologica Città del Vasto, 10 – 30 agosto 1981