“40° della morte di Carlo d’Aloisio da Vasto” di Lino Spadaccini su “Noi Vastesi” (21-11-2011)

Carlo d’Aloisio, autoritratto

Il 21 novembre di quaranta anni fa ci lasciava Carlo d’Aloisio da Vasto, pittore e incisore di grande spessore, tra i primi ad aderire alla “Scuola Romana” di Mafai e Scipione.

Non sbagliamo se definiamo Carlo d’Aloisio un artista completo, capace di spaziare attraverso le varie tecniche pittoriche con sicurezza e personalità, ma anche scrittore e critico attento, ideatore e compilatore dell’Almanacco degli Artisti. Il Vero Giotto, il vero centro culturale del movimento artistico romano e non solo, con la partecipazione di tutti i più grandi artisti e critici dell’epoca.

Dopo i primi studi tecnici, Carlo d’Aloisio si dedica con passione all’arte da autodidatta, approfondendo e facendo sue una serie di tecniche, tra le quali la xilografia e l’acquerello, conseguendo da subito egregi risultati.

Dopo due incoraggianti esordi espositivi a Castellammare Adriatico (Pescara) e Ortona, all’età di sedici anni lascia la sua casa di Vasto alla volta di Roma, dove maggiori sono le possibilità di successo e di lavoro.

Un distacco difficile, come lo può essere per chiunque sia costretto a lasciare la propria terra, i propri ricordi e i luoghi cari dell’infanzia, ma conservati per sempre nel cuore e nella memoria.

Forse proprio per questo, lo stesso Carlo d’Aloisio, convinto di non poter più lasciare Roma per tornare al paese natio, decide di affermare la sua origine aggiungendo da Vasto alla sua firma.

Proprio dal cuore nascono molte delle opere di d’Aloisio, come lo
dimostrano i tanti quadri realizzati nel corso degli anni con soggetti
vastesi: quadri di pura poesia dove oltre al soggetto ed al colore, si
percepiscono altri elementi quali il profumo della terra e del mare oppure i
suoni silenziosi che si elevano dalla gente o anche da una torre campanaria,
tutte illusioni reali che può percepire e capire solo chi conosce gli scorci,
i paesaggi, i panorami o le scene di vita quotidiana disegnati dal pittore.

Una delle più importanti mostre allestite da d’Aloisio durante la sua lunga carriera è senz’altro quella organizzata a Roma, nelle Stanze del Libro nel Salone delle Tre Venezie, nel marzo del 1929, insieme alla moglie, Elisabetta Mayo, apprezzata scultrice, anche lei vastese.

Più che una mostra un vero e proprio evento artistico, inaugurato da S. E. Giuseppe Bottai, con la gradita  quanto inaspettata visita del Re Vittorio Emanuele III, e un cronista d’eccezione, il vastese Francesco Anelli, corrispondente de “Il Vastese d’Oltre Oceano”, il quale, senza mezzi termini e con profondo orgoglio, tiene a sottolineare la vastesità dell’evento:

«È l’Abruzzo che trionfa in questi quadri. Ma sì, è più che l’Abruzzo! È Vasto!
Vasto nella torre di Santa Maria dieci volte ripetuta, con la chiesa, col
prolungamento del monastero di Santa Chiara; è la processione che rientra
in San Pietro (oh, qui non si fa questione di San Pietro e di Santa Maria!);
è il mare, e i colli sovrastanti; è la campagna nostra; sono i nostri
contadini camuffati nei vestiti moderni ma schietti e veri con le loro
angolosità e la loro semplicità scura di blocchi legnosi o rocciosi…».

Ma l’amore per il paese natio non lo troviamo solo nelle opere pittoriche, ma anche in un interessante articolo, pubblicato nel 1916 sull’Emporium, dal titolo L’arte medievale in una bella cittadina d’Abruzzo.

«Senza dubbio la vera forza dell’Italia nuova risiede nelle sue provincie
– scrive Carlo D’Aloisio – tutti i germi di vita e di potenza, di bellezza e di valore che le grandi città maturano e dissolvono nascono tutti dal seno delle città minori. Ogni pietra vi nasconde una sorgente di ricchezza, ogni silenzio vi genera un’idea… Vi è quel tanto di antichità che basta per comprendere come ogni tempio, ogni arco trionfale abbia saputo anche là imitare e perpetrare lo sforzo degli uomini curvati e dei popoli che si risollevano. La piccola città di Vasto (oggi compresa nella zona di guerra) ne ha offerto recentemente un esempio che si può chiamare mirabile. Alta e severa nella bellezza tetra del suo castello, delle sue torri, del suo Palazzo che rammenta la sontuosità guerriera dei d’Avalos e dei Colonna; circondata da ogni parte della verdezza degli ulivi, dinanzi al bello azzurro dell’Adriatico solcato di vele rosse e gialle, essa ha rievocato in un sol giorno ben sette figure di suoi figli più illustri e li ha consacrati nel tempo e nelle memorie.
I Palizzi e i Laccetti, i Rossetti d’onde uscì quel Dante Gabriele Rossetti, soave e immortale creatore del Preraffaellismo. E Francesco Laccetti, il chirurgo insigne. Questo è il gruppo di artisti onorato dalla città di Vasto nel cerchio antico delle sue mura, in un consentimento prodigioso di spiriti e di popolo».

Chiudiamo con una bella e dolce lettera scritta dall’artista vastese, pubblicata nel libro Discanto di Pasquale Scarpitti (Editrice Sarus, Teramo, 1972), dove è palpabile la sofferenza patita dal pittore per il distacco dalla propria terra, una sofferenza rimasta chiusa nel proprio intimo per tanti anni:

«La mia Terra d’Abruzzo, se pur lontana da me da lustri, mi è rimasta teneramente e dolcemente nel cuore come una “sposa” vergine, intoccata e intoccabile.
Recentemente ho voluto rivedere i luoghi della mia fanciullezza, della mia adolescenza, della mia giovinezza. E vi sono andato per un colloquio intimo d’amore, arrivando in piena notte di plenilunio. E – solo – vi sono rimasto fino alla prim’alba.
Cari posti miei in riva all’Adriatico: Casarza, il Trave, Vignola, Punta Penna, Vasto! Poi ho preso commiato con le lacrime agli occhi.
La solitudine! È il mio peccato originale? Non so. Ma sta di fatto che la solitudine mi ha sempre dato un dolce senso di tranquillità e di serenità E non è poco per la vita di un irrequieto sognatore. La solitudine mi occorre per stare con me stesso.
Ho avuto ed ho ancora in Abruzzo tanti cari e cordiali amici che mi sono rimasti affezionati, che mi vogliono bene come io li amo. Ma la solitudine è il mio piccolo – grande regno – E i desideri e gli amori della mia giovinezza non si sono spenti in me.
Io ho amato la mia terra d’Abruzzo come un figlio ama la propria Madre.
E questi amori tenuti gelosamente nascosti e racchiusi nel cuore, vengono maggiormente goduti in una solitudine, in un godimento spirituale della natura e dei suoi colori.
Ma c’è sempre vivo il desiderio di ripartire per rivedere e salutare tutti gli altri lidi a me noti, tutti gli altri luoghi delle altre provincie visti e dipinti con amore, tutti i posti delle quattro provincie risognate e ridesiderati. E dire a loro, a voce commossa, “Ciao”, forse ci vediamo per l’ultima volta! Ma spero che il Gran Dio vorrà consentirmi di portare con me, nell’aldilà, dentro i miei occhi chiusi qualche vostro pezzettino luminoso e prezioso.
Così vivremo ancora insieme, per l’eternità».

stralcio da articolo, a firma Lino Spadaccini, apparso su “www.noivastesi.blogspot.com” – 21 nov. 2011